Per capire la Cina si deve guardare alla sua corruzione

Tangenti di Stato

PECHINO Bo Xilai, Zhou Yongkang, Ling Jihua sono i nomi delle tre principali “tigri” (laohu) finite in gabbia nell’ambito della grande campagna anticorruzione cinese, iniziata poco prima dell’insediamento di Xi Jinping, a novembre 2012, e rilanciata poi alla grande dal nuovo presidente della Repubblica e segretario del Partito, una volta in carica.

Di loro si sono pressoché perse le tracce. Di recente è giunta la notizia che tutti e tre avrebbero simulato la pazzia durante gli interrogatori. Secondo alcune testimonianze, queste procedure sfociano talvolta nella tortura. L’idea è di fingersi malati di mente per affrontare il cosiddetto shuanggui, un procedimento disciplinare che colpisce i membri del Partito e che è al di fuori da ogni procedura legale. Il funzionario, in questi casi, deve presentarsi in un certo luogo a una certa ora. Dopodiché, in genere, scompare per ricomparire dopo un lasso di tempo variabile, quasi immancabilmente con una confessione firmata dei propri crimini.

Secondo la rivista di Hong Kong The Trend sia Zhou, l’ex potentissimo zar della sicurezza, sia Bo, il leader di Chongqing caduto in disgrazia e condannato all’ergastolo due anni fa – sarebbero ricorsi all’espediente, forse per ammorbidire le pratiche dello shuanggui.
 

Ling Jihua, durante il processo, avrebbe cercato di fingere la pazzia. Durante gli interrogatori si sarebbe messo a cantare le canzoni rossi dei tempi di Mao

Bo Xilai si presentò comunque poi in formissima al processo del settembre 2013 e ribatté colpo su colpo alle accuse, senza per altro riuscire a evitare la condanna all’ergastolo. Zhou, che si trova sotto torchio proprio ora, avrebbe invece ormai rinunciato alla strategia del folle e infatti, si dice, avrebbe già firmato circa ventidue confessioni, chiedendo clemenza.

L’ultimo caso riguarda invece Ling Jihua, all’epoca braccio destro dell’ex presidente Hu Jintao, salito alle cronache nel 2012 quando suo figlio morì in un incidente con la sua Ferrari (a bordo c’erano anche donne molto poco vestite) andando a sbattere contro un ponte di Pechino. Ling Jihua è sotto accusa per alcune “serie violazioni disciplinari”, ad esempio per corruzione. Durante gli interrogatori, dicono le voci, si sarebbe messo a cantare le canzoni rosse dei tempi di Mao durante gli interrogatori. La sera, poi, suggerirebbe ai carcerieri di andare a casa a bersi un bicchiere alla sua salute. È probabile che a breve ricomparirà pure lui con la confessione in tasca.

Oltre a mettere in luce le vicende bizzare dei pezzi grossi, la campagna anticorruzione fa emergere anche una Cina profonda, con i suoi tic e le sue manie, in particolare quando, nel suo mirino finiscono le cosiddette “mosche” (cangying), cioè i piccoli funzionari, l’altra componente identificata da Xi Jinping come obiettivo da colpire.

Non passa giorno senza che qualcuno finisca nel sacco. Nel 2014 sono stati coinvolti circa 72mila pubblici ufficiali. Di questi, meno dell’uno per cento è stato scagionato.
 

Dal villaggio ai gradini più alti della scala gerarchica, sono tanti i funzionari che ricevono bustarelle e commettono illeciti. E rivelano le manie di un Paese che cambia

Per quanto riguarda il 2015, le cose non stanno cambiando. La Commissione centrale per l’ispezione disciplinare, l’agenzia che coordina la campagna, ha annunciato ad aprile che nei primi tre mesi dell’anno erano già stati puniti 2.673 membri del Partito. Più del 90 per cento di questi casi riguardava episodi che riguardavano le amministrazioni di livello più basso, quello del villaggio. Il reato più comune? L’uso improprio di veicoli ufficiali.

Se però dal villaggio si risale e si va a guardare i piani più alti della scala gerarchica, si vede crescere il valore delle bustarelle e degli affari illeciti. Le storie dalle cronache degli ultimi mesi sono molto eloquenti:

Ad agosto 2014, ad esempio, un funzionario di basso rango viene accusato di essere coinvolto nel più grande caso di corruzione mai avvenuto nel Guangdong, la regione più ricca (e anche più corrotta) della Cina. Zhang Xinhua, 52 anni, si sarebbe messo in tasca circa 400 milioni di yuan (quasi 60 milioni di euro) nel giro di 15 anni. Nel processo, che si è tenuto a settembre, emerge che Zhang prendeva i fondi dell’azienda di Stato di cui era direttore generale e li metteva nella sua personalissima agenzia immobiliare, attraverso cui svolgeva una serie di operazioni finanziarie approfittando del cosiddetto sistema finaziario “ombra” (cioè al di fuori del controllo delle banche di Stato); con i soldi acquistava asset di valore: immobili (anche a Hong Kong), piccole manifatture, terreni e frutteti. La sua difesa è disperata. Prima ribatte che le cifre imputategli “sono esagerate”, poi spiega che, trasferendo liquidi alla sua attività intendeva solo mettere i soldi pubblici “al sicuro”. Certo, si era dimenticato di segnalarlo alle autorità competenti, che sbadato.

Che il Guangdong regali delle perle, in questo senso, è confermato a settembre, quando si scopre che l’ex vicesindaco di Guangzhou, Cao Jianliao, avrebbe speso circa 17 milioni di dollari di Hong Kong (oltre due milioni di euro) come “buonuscita” per l’amante, che aveva conosciuto, ancora studentessa, nel 1992. Cao le avrebbe versato la somma in due tranche, dandole anche una mano a espatriare. Si chiama “accordo di terminazione”, pare sia molto in voga tra i funzionari cinesi e le rispettive concubine: io me ne vado senza spifferare e tu mi versi la tal cifra, nero su bianco. L’inchiesta svela anche che Cao avrebbe intrattenuto relazioni con almeno undici donne a partire dal 1988: partner erotiche che spaziano dalle funzionarie governative, colleghe di lavoro, dirigenti di società, fino alla manager di un ristorante e perfino al personale di un negozio di attrezzatura tennistica. I funzionari del Partito comunista sono tenuti ad avere una vita personale irreprensibile. Nel loro caso, l’adulterio è considerato un vero e proprio reato.

A ottobre si apprende poi che 6.484 funzionari di nove province sono sotto inchiesta, tra cui 2.350 dell’Heilongjiang, 513 dell’Henan e 60 dell’isola meridionale di Hainan. Per quale motivo? Pare che siano tutti “funzionari migranti”, cioè che vivono in città ma sono spediti per servizio nelle campagne. Ebbene, in questo caso, gli ufficiali caricavano le spese di trasferta e, nel frattempo, se ne stavano “belli paciarotti” (Prosperini docet) a casa propria, senza svolgere il proprio lavoro. Che la campagna anticorruzione voglia essere “esemplare” (cioè dura), lo rivela il fatto che tale Cui Lianhai, ex segretario del Partito nel villaggio di Qinjiatun, provincia del Jilin, finirà con una condanna di vent’anni di prigione per avere fatturato 72.690 yuan in spese di viaggio nel giro 262 giorni (circa 10.700 euro): sono 278 yuan (50 euro) al giorno.

A novembre parte un giro di vite nell’Hebei, la provincia che circonda Pechino. Tra i vari casi di malaffare, viene alla luce il traffico di un anonimo funzionario che occultava oltre 100 milioni di yuan in contanti (quasi 15 milioni di euro) nonché 37 chili d’oro nel proprio appartamento. Inoltre, aveva accumulato 68 proprietà immobiliari.

Che l’oro sia bene rifugio – forse di fronte al rallentamento dell’economia cinese – è confermato a dicembre, quando emergono dettagli sulla vicenda di Gu Junshan, un generale dell’Esercito Popolare di Liberazione arrestato mesi prima. Il graduato era coinvolto in un enorme giro di corruzione da miliardi di yuan e, per pagare le tangenti, si serviva di auto di lusso con carrozzerie imbottite di lingotti d’oro. A sua volta, Re Mida Gu teneva in casa una statua del Buddha in oro massiccio. Questa vicenda si collega al giro di vite nelle forze armate che, secondo alcuni analisti, sarebbero tanto corrotte da non essere in grado di sostenere alcun tipo di operazione bellica, in caso di necessità. Un incubo per la nuova leadership cinese.
 

La campagna anticorruzione è lo specchio di una Cina profonda e tradizionale, ma al tempo stesso ruspante e aperta sul nuovo

Era invece più affezionato alla giada Ni Fake, un ex governatore dell’Anhui, che sempre a dicembre ammette di avere accettato 13 milioni di yuan (quasi due milioni di euro) in mazzette consistenti nella pregiata pietra ornamentale. Che Ni sia tipo raffinato emerge anche dal fatto che nei 49 episodi di corruzione di cui è imputato avrebbe intascato anche quadri di valore, oltre a somme in denaro contante; ma la giada costituisce circa l’80 per cento di quanto ha sottratto alla collettività. Tra i pezzi di rilevo, un pezzo di “giada di Hotan” (Xinjiang) dal valore di 3,5 milioni di yuan (515mila euro). In cambio, il collezionista-funzionario concedeva appalti immobiliari a una pletora di palazzinari.

Nello stesso mese, viene condannato all’ergastolo l’ex vicedirettore dello Zoo di Pechino, Xiao Shaoxiang. Non è riuscito a convincere la corte che le ricchezze trovate in casa sua – sei milioni di yuan in contanti, più altri due milioni tra quadri e gettoni d’oro – fossero il frutto di “lavoretti part-time”, tra cui quello di tassista. Accusato di mazzette per un totale di 140 milioni di yuan (20 milioni di euro), Xiao spiega che, dopo il normale orario di lavoro allo zoo, affittava un’auto e scarrozzava gente nelle ore notturne. Inoltre commerciava in pietre, quadri, e qualche volta faceva il muratore. Sempre di notte, infaticabile: si divideva tra lavoro manuale e verve artistica.

Che la società cinese stia raffinandosi, lo rivela anche il caso di Qin Yuhai, ex governatore della regione dello Henan con il pallino per la fotografia. Nella sua carriera di fotografo dilettante, ha esposto perfino in Italia e in Francia, ma lo scorso marzo la Commissione disciplinare del Partito rivela che diverse aziende hanno speso centinaia di migliaia di euro per compragli apparecchiature e garantirgli mostre all’estero. In cambio di contratti.

Infine, ad aprile, un caso che ricorda Arcore e dintorni. La passione per il feng shui gioca un brutto scherzo a Chen Hongping, segretario di Partito in una località del Guangdong, che avrebbe accettato circa 125 milioni in mazzette (oltre 18 milioni di euro) durante i suoi anni in carica. Chen ha infatti suscitato qualche sospetto quando si è lanciato nella costruzione del proprio mausoleo di famiglia per la bellezza di tre milioni e mezzo di yuan (515mila euro), facendo studi preventivi con tanto di compasso in mano, per renderlo feng shui compatibile. Oltre alla corruzione, Chen è a questo punto imputabile del fatto che i funzionari di Partito non possono cedere alle “superstizioni”.

Le storie non finiscono certo qui. La campagna anticorruzione è lo specchio di una Cina profonda e tradizionale, ma al tempo stesso ruspante e aperta sul nuovo. Così il feng shui si sposa con le mostre di fotografia, la concubina con i quadri d’autore. Fore la modernità cinese è proprio questo: un sovrapporsi di simboli, valori e desideri, frullati dalla globalizzazione e dalla ricchezza acquisita (non ancora da tutti). Quando i leader di Pechino dicono che in Cina convivono primo, secondo e terzo mondo, forse, buttano anche un occhio alle cronache giudiziarie.

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