La data segnata sul calendario è quella del 18 giugno, inizio del Ramadan 2015, scelta simbolicamente dall’inviato Onu per la Libia, Bernardino Leon, come linea invalicabile per raggiungere l’accordo su un governo di unità nazionale, che superi la frattura dei due Parlamenti e dei due esecutivi, quello di Tobruk e quello di Tripoli. Le Nazioni Unite continuano a sfornare bozze d’intesa – l’ultima, la quarta in ordine cronologico, qualche giorno fa – puntualmente rispedite al mittente da uno dei due fronti, o da entrambi. Al diffuso pessimismo della ragione, Leon contrappone il cauto ottimismo della volontà e non esclude ulteriori tentativi, anche ad ultimatum scaduto. Nel frattempo, però, all’interno del vuoto di potere si insinua lo Stato Islamico, non forza egemone, certo, ma capace di piazzare sempre più bandierine, e in luoghi sempre più strategici: aeroporti, centrali elettriche, aree petrolifere.
Nella notte tra sabato 13 e domenica 14 giugno, gli Stati Uniti hanno segnato un punto importante nella campagna di controterrorismo, colpendo, a diciotto chilometri da Ajdabiya, in Cirenaica, il jihadista più ricercato del Nordafrica, l’algerino Mokhtar Belmokhtar, ex leader di al Qaeda nel Maghreb e mente dell’assalto all’impianto di gas di Im-Amenas, nel gennaio 2013 (secondo la Libia, Belmokhtar sarebbe morto, assieme a sei leader di Ansar Al-Sharia, mentre Washington conferma l’obiettivo del raid, ma non dà certezze sul decesso). Intanto prosegue l’attività diplomatica e gli americani, assieme ad Italia, Gran Bretagna, Unione Europea, Francia, Germania, Cina, Russia e Spagna, dopo l’incontro di Berlino con i delegati libici impegnati nel “dialogo politico” sotto l’egida dell’Onu, hanno ribadito il sostegno a Leon e alla sua ricerca di compromesso, che prevede un cessate-il-fuoco generalizzato e la creazione di istituzioni inclusive, a partire dal governo. Negli ultimi nove mesi si sono succeduti gli incontri, le sedi – Marocco e Algeria su tutte – le bozze, e qualche risultato è stato raggiunto: tregue locali, ritorno di alcuni sfollati, scambio di prigionieri. La riconciliazione tra le varie municipalità, e tra le numerose tribù, ha fatto passi in avanti. Però si è continuato a combattere, col risultato che i “terroristi” – così l’Onu chiama lo Stato Islamico, mentre per Tobruk sono terroriste anche le milizie filoislamiche che controllano la capitale – hanno allargato il loro raggio d’azione.
All’interno del vuoto di potere si insinua lo Stato Islamico, non forza egemone, certo, ma capace di piazzare sempre più bandierine, e in luoghi sempre più strategici: aeroporti, centrali elettriche, aree petrolifere
L’ultima proposta d’intesa è stata rigettata proprio dal parlamento che ha sede nell’Est, riconosciuto dalla comunità internazionale, sostenuto fattivamente da Egitto ed Emirati, ma del tutto incapace di rimuovere lo stallo (la stessa liberazione di Bengasi dagli islamisti, promessa più di un anno fa dal generale Khalifa Haftar, viene costantemente annunciata e costantemente rimandata, segno che una soluzione militare della matassa libica è assolutamente impensabile). Troppi, secondo Tobruk, i poteri del Consiglio di Stato, in cui andrebbero a confluire novanta membri dell’assemblea nazionale di Tripoli (nomina del procuratore capo, del presidente della Corte costituzionale, del direttore dei Servizi segreti, del governatore della Banca centrale, del presidente del Comitato elettorale). Altri punti di contrasto riguardano la sfiducia votata del Parlamento nei confronti del governo e soprattutto la figura del comandante delle forze armate. La terza bozza, invece, era stata bocciata dal Congresso che ha sede nella capitale. Leon aveva cercato di rafforzarne il ruolo, per riportare al tavolo Tripoli. Col risultato, però, di spingere cinquantacinque deputati di Tobruk a votare no e a sospendere la partecipazione dei proprio rappresentanti ai colloqui.
C’è l’ipotesi che si raggiunga comunque un accordo prima dell’inizio del Ramadan, ma è probabile che si tratti di un’intesa in tono minore. Un patto, insomma, che riguardi città, tribù e alcune milizie (Misurata e Zintan su tutte, ci si augura), ma non entrambi i governi. Basterà a garantire un minimo di stabilità e a contenere l’avanzata dello Stato Islamico? Secondo le forze di sicurezza libiche, ci sono circa 2.000 combattenti dell’Is a Sirte (la maggior parte dei quali di origine tunisina) e 700 a Sabratha, nel Nord-Ovest del Paese, a 41 miglia da Tripoli.
Le milizie di al Baghdadi hanno intenzione di imporsi su tutti i gruppi e su entrambi i governi. Il nemico, quindi, non è solo l’esecutivo di Tobruk, riconosciuto dall’Occidente e appoggiato dal nemico degli islamisti, il presidente egiziano al Sisi, ma quello di Tripoli, per il quale combattono molte brigate filoislamiche. Prova ne è il fatto che le forze di Misurata, schierate con la capitale, sono state prese di mira dall’Is: l’ultimo attacco suicida, al checkpoint di Dafniya, ha spinto Alba Libica – così si chiama la coalizione anti-Tobruk – a chiedere un sostegno contro il Califfato (aumentando, forse, le possibilità di successo del compromesso a cui aspira Leon).
Nel suo tentativo di fare tabula rasa della Libia, lo Stato Islamico, come già in Siria, ha creato un vasto fronte di rivali, anche nel campo dell’Islam fondamentalista. A Derna, dopo l’uccisione di Nasser al-Aker, uno storico leader locale, il Consiglio della Shura dei Mujaheddin, legato ad al Qaeda, ha dichiarato il jihad contro l’Is. Qaedisti contro miliziani di al Baghdadi, quindi, nella roccaforte del jihadismo libico.
Più si allontana l’accordo tra fronti rivali, più lo Stato Islamico diventa un’alternativa invitante
Le battaglie più significative, però, potrebbero essere altre. Il 9 giugno il Califfato, che aveva già issato la propria bandiera su un aeroporto strategico nella regione di Sirte, ha annunciato di essersi impadronito di una centrale elettrica ad ovest della città, dopo un attacco a milizie fedeli a Tripoli. I tripolini accusano l’Is di essersi alleato con alcuni gheddafiani per conquistare le aree in cui si trovano i giacimenti di petrolio. Sirte, infatti, è importante per varie ragioni. Da lì parte la strada che conduce a Misurata, terza città del paese. Ma soprattutto quella regione ha il settanta per cento delle risorse energetiche libiche. Negli ultimi sei mesi lo Stato Islamico ha condotto una serie di attacchi alle installazioni petrolifere, uccidendo e sequestrando i lavoratori, o spingendoli ad emigrare. L’area, quindi, è stata “ripulita” ed è molto più vulnerabile all’assalto del Califfato. L’Is ha già conquistato la città desertica di Nufaliya, a cinquanta chilometri dal più grande terminale dell’export di petrolio, il porto di Sidra. Nella prima metà di giugno ha aggiunto all’elenco un altro piccolo centro strategico, Harawa, sull’autostrada costiera che va da Sirte alla stessa Sidra. I due principali porti libici – l’altro è Ras Lanuf – controllati dal leader del movimento federalista, Ibrahim Jadran, saranno probabilmente le prossime mire del Califfato. Tra l’altro, la conquista di Harawa ha segnato un mutamento tattico: le milizie di al Baghdadi hanno negoziato un’intesa con i leader tribali della città, prima di issare la propria bandiera.
Insomma, più si allontana l’accordo tra fronti rivali, più lo Stato Islamico diventa un’alternativa invitante. Per la Libia la bancarotta comincia a materializzarsi e lo stesso Leon ha ammesso che la definizione di “Failed State” è quasi realtà. Si calcola che tra sei settimane i due governi non avranno abbastanza risorse per pagare gli stipendi dei propri dipendenti, comprese le milizie che combattono in loro difesa, malgrado Tobruk abbia annunciato la costituzione di una nuova Banca Centrale, sotto il proprio controllo (quella attuale ha delocalizzato temporaneamente a Malta, come il fondo sovrano libico).
Al Baghdadi – o chi per lui – conquista consensi, non solo col terrore e le continue dimostrazioni di forza – decapitazione pubbliche, rapimenti, come quello, recente, di 86 migranti cristiani eritrei -, ma anche con la prospettiva di un futuro migliore. Sinora lo Stato Islamico controlla solo alcuni centri, ma se i negoziati tra i due governi dovessero nuovamente naufragare, vittime del ricatto dei falchi, si spalancherebbero spazi enormi per il Califfato. Ecco perché far coincidere riconciliazione e Ramadan non è “un obiettivo sacro”, ma un orizzonte che, visto col metro della politica, appare di un valore incalcolabile.