L’Expo degli antichi romani, amanti di street food e salsa di pesce marcio

L’Expo degli antichi romani, amanti di street food e salsa di pesce marcio

La lumaca di Slow Food doveva ancora venire alla luce, Eataly era un marchio sconosciuto – tanto più che in Britannia dominavano i latini – e i kiwi cileni non avevano ancora affiancato sulle tavole quelli di Viterbo. Ma c’era la produzione a chilometro zero, si importavano oli andalusi e mieli greci, e lo street food era assai più diffuso di oggi. Capitava all’epoca della prima globalizzazione dei consumi, quando il potere politico – effettivamente centrale, altro che il caos odierno – era costretto a porsi una domanda cruciale, dalla cui risposta dipendeva la propria sopravvivenza: come nutrire l’Impero?

Nell’arco di tempo che va da Augusto a Costantino (27 a.C. – 337 d.C.), la città di Roma raggiunse un milione di abitanti, controllando un territorio di 50/60 milioni di persone. “Nutrire il pianeta” imperiale divenne una necessità per il princeps, che se ne occupò direttamente, stabilendo un rapporto personale con il proprio popolo. L’imperatore si fece carico dell’annona di Roma: i cittadini maschi, adulti e residenti – con un tetto di 200.000 beneficiari, fissato da Augusto – ricevevano dallo Stato ogni mese, a titolo gratuito, cinque moggi di grano (circa 35 chilogrammi), una quantità che, trasformata in pane, era più che sufficiente per il sostentamento. 

Eataly era un marchio sconosciuto, tanto più che in Britannia dominavano i latini. Ma c’era la produzione a chilometro zero, si importavano oli andalusi e mieli greci, e lo street food era assai più diffuso di oggi

Il prefetto dell’annona era una sorta di super commissario, un magistrato della classe dei cavalieri, responsabile della “filiera” del grano (e in seguito anche dell’olio). Veniva  scelto dall’imperatore, che lo nominava e revocava liberamente, pagandolo con le risorse del proprio fiscus. In questo modo i romani sapevano benissimo chi ringraziare in caso di abbondanza, o con chi prendersela quando il cibo scarseggiava.

Per capire l’importanza di questa figura bisogna vedere lo splendido “Sarcofago dell’Annona”, un capolavoro datato intorno al 270-280 d.C, conservato abitualmente a Roma, presso Palazzo Massimo alle Terme, ma adesso esposto, sempre a Roma, in una bella mostra, “Nutrire l’Impero. Storie di alimentazione da Roma e Pompei”, ospitata dal Museo dell’Ara Pacis (2 luglio – 15 novembre 2015) ed ideata in occasione di Expo 2015. Un affresco fatto di reperti archeologici e apparati multimediali, che ricostruisce il modo in cui gli antichi romani hanno affrontato la questione alimentare, organizzando produzione e consumi.

Resti organici di focacce di pane da Ercolano 

Le distribuzioni gratuite di grano (frumentationes) comportavano l’importazione di  quantità di frumento che oscillavano tra i 9 e i 12 milioni di moggi l’anno (ossia fino a 84.000 tonnellate). Se si considera il rifornimento alimentare necessario all’intera città, la quantità di grano importata sale a cifre che gli storici, non concordi per carenza di fonti, stimano tra i 50 e 60 milioni di moggi (350.000 e 420.000 tonnellate). Alla fine dell’era repubblicana il frumento consumato a Roma veniva dall’Africa, dalla Sicilia e dalla Sardegna, ma, con la conquista dell’Egitto e la politica di espansione agricola nel continente nero, il quadro commerciale cambiò: durante l’alto impero il grano venne prodotto per 1/3 dall’Egitto e per i restanti 2/3 da altre regioni dell’Africa (corrispondenti alle attuali Tunisia, Algeria e Libia). Insomma, in seguito alla pax romana, intorno al bacino del Mediterraneo si formò la prima “globalizzazione dei consumi”, con relativa “delocalizzazione della produzione”, a base di monoculture estensive specializzate: grano, olio, vino.

Come fu possibile tutto questo? All’epoca la struttura amministrativa statale era un meccanismo funzionante: incentivi al libero commercio, con una Maastricht ante litteram, riscossione del grano (e di altri beni primari) come imposte in natura, organizzazione dei trasporti su grandi navi mercantili, fino all’arrivo nei porti di Pozzuoli ed Ostia. L’area commerciale per eccellenza era quella dell’Emporium, la grande struttura portuale costruita a partire dal 193 a.C., dopo la seconda guerra punica: 1500 metri di infrastrutture sulla riva sinistra, tra Foro Boario e Testaccio, e altrettante sulla destra, attrezzavano il Tevere a ricevere alimenti e merci per tutta la città. L’Emporium, con i suoi moli e uno scivolo per gli scafi, aveva alle spalle un entroterra pianeggiante di circa 60 ettari, esteso fino al luogo in cui sorgevano i magazzini più grandi del Mediterraneo, quelli del Monte Testaccio, alto 30 metri, 1500 metri di perimetro alla base (il Monte Testaccio è chiamato anche “Monte dei Cocci”, perché lì si accumularono frammenti di milioni di anfore, accatastati tra il I e il III secolo d.C., testimonianza dell’importazione massiccia di olio dalla Betica, l’odierna Andalusia).

La mostra ripercorre i movimenti delle merci, consente di visualizzare le rotte marine, illustra le modalità di conservazione dei beni, di distribuzione e di consumo, fotografa la diffusione e persino i prezzi di certi alimenti. Ricostruisce un’epoca, quindi, attraverso la sua cultura materiale.

Grazie alle anfore, che venivano fabbricate nei luoghi di produzione delle merci, è stato possibile tracciare i rapporti commerciali nell’area mediterranea. Già in era pre-Nas ci si preoccupava delle frodi alimentari: le anfore dovevano certificare non solo il genere, la quantità, la proprietà e il trasportatore, ma anche la qualità del carico (nel caso del grano veniva spedito un campione, che doveva risultare conforme a quello venduto). Quanto ai trasporti, il liberismo delle origini fece progressivamente spazio allo statalismo: inizialmente ci si affidava, tramite appalti, ad armatori privati, i navicularii (che potevano essere anche mercanti in proprio, cioè negotiatores), attraverso una serie di incentivi, che andavano dall’assicurazione statale delle eventuali perdite alle esenzioni fiscali. Poi si impose una certa forma di dirigismo (non è chiaro quando sia avvenuto il passaggio al controllo statale dei movimenti, ma probabilmente si ebbe una accelerazione sotto Traiano).

Insegna della Fenice, intonaco dipinto (Pompei)

Per nutrire l’impero, il prefetto dell’annona doveva avere una struttura globale, che avesse il controllo dell’intera filiera, stipulando contratti con singoli imprenditori o con intere categorie di lavoratori (procuratori, trasportatori, armatori navali, autorità portuali, scaricatori, controllori, misuratori, proprietari di magazzini, mugnai e panettieri). Il prefetto si avvaleva di due “uffici” esteri, ad Alessandria d’Egitto e in Numidia, e di uno stuolo di collaboratori, compreso un “procuratore all’Annona” ad Ostia, dove confluiva il grano fiscale

I romani erano abituati a mangiare fuori casa, nei negozi – i thermopolia o popinae e le cauponae – in cui il cibo preparato (zuppe, carni, pesci, frutta secca) veniva venduto e consumato. Si trattava, in sostanza, di osterie, spesso associate ad alberghi (hospitia e stabula), destinati ad ospitare i viaggiatori e i loro animali. Il bancone conteneva, murati, i dolia, grandi recipienti in cui erano conservati i cibi; di lato c’era un espositore a gradini su cui si sistemavano i vasi con i diversi cibi, oltre ad un fornello per riscaldare la pietanza prima di servirla. 

Nonostante l’assenza di pedagogia alimentare e culinaria – non c’erano nutrizionisti né antenati di Cracco – la dieta non era così diversa da quella attuale. Il mercato (macellum) era specializzato nella vendita di merci di pregio, come pesce, molluschi (ostriche comprese), carne, salumi, cacciagione e garum, una salsa a base di pesce (sgombro, ad esempio), salata e lasciata macerare al sole, prodotta soprattutto in Andalusia e a Pompei. I romani andavano matti per questo condimento – una sorta di colatura di alici dei tempi antichi – tanto da sborsare grandi cifre per averla (e malgrado l’odore fosse notoriamente pessimo, a tal punto che Marziale scherza alle spalle di un amico capace di frequentare donne amanti del garum).

Nonostante l’assenza di pedagogia alimentare e culinaria – non c’erano nutrizionisti né antenati di Cracco – la dieta non era così diversa da quella attuale

La carne più diffusa e apprezzata era quella di maiale, che sotto Aureliano (270 – 275 d.c.) cominciò ad essere distribuita gratuitamente e con regolarità ad alcune categorie di cittadini. Pecore e capre venivano utilizzate soprattutto per produrre latte, mentre i bovini erano considerati animali da lavoro. L’olio non serviva unicamente a scopo alimentare: veniva consumato in grandi quantità, per l’illuminazione, il riscaldamento, la cosmetica o in ambito medico. Quello spagnolo, più dozzinale, destinato al consumo popolare, venne sostituito da quello africano quando i romani impiantarono nel continente coltivazioni estensive di olivi (altro esempio di delocalizzazione della produzione). L’olio italiano, invece, era il più pregiato, soprattutto se proveniva da Liguria e Molise.

Anche il vino fu oggetto di produzioni intensive, che dall’Italia centrale si estero alla Spagna, alla Francia, alla Grecia, all’Asia Minore, al Marocco. I grand cru restarono riservati all’élite, ma nei primi secoli dell’impero la bevanda divenne un bene di largo consumo, indispensabile nella dieta alimentare dei romani. Fu sempre Aureliano a distribuire vino a prezzo ribassato a quei cittadini che già ricevevano gratuitamente grano e olio: clientelismo e assistenzialismo si facevano preferire al salutismo. 

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