È un ricchissimo miliardario americano nel business edilizio, un grande investitore, una personalità televisiva e uno scrittore affermato. Lo stile di vita stravagante, la schiettezza ai limiti dello scorretto e la guida di un programma televisivo della NBC, The Apprentice, lo hanno reso la celebrità n° 17 nella lista Forbes 100 del 2011. È stato inoltre proprietario dello storico Hotel Plaza di New York dal 1988 al 1995, ed è quindi considerato uno dei maggiori imprenditori degli Stati Uniti, con un patrimonio stimato in 2,9 miliardi di dollari. In una puntata del Letterman Show trasmessa nel marzo 2013 ha però dichiarato che il suo patrimonio è di 9 miliardi di dollari, cifra confermata pure dal Washington Post nel giugno di quest’anno.
E questa volta Donald Trump riprova ad arrivare alla presidenza (non è la prima: ci provò pure nel 2000 col Reform Party) con il Partito Repubblicano, gli avversari di Barack Obama. Sì, perché il Grand Old Party (i repubblicani) ha bisogno di trovare una seria alternativa all’odierno presidente. Il 12 aprile 2015, infatti, il Segretario di Stato Hillary Clinton ha annunciato di volersi candidare alle presidenziali del 2016 per i democratici, mentre i repubblicani, che dopo aver candidato inutilmente John McCain nel 2008, non hanno più trovato un vero successore a George W. Bush. E Trump aveva già iniziato il 9 luglio scorso, apostrofando la Clinton, durante un’intervista alla Cnn: “È stata la peggiore segretario di Stato della Storia”.
Ora Trump, durante il primo dibattito repubblicano trasmesso da Fox News, s’è fatto notare per altro: durante tutto l’evento, al fianco di nove pretendenti scelti dall’emittente di Rupert Murdoch sulla base dei risultati di recenti sondaggi nazionali, Trump ha letteralmente dominato la scena, cercando di essere aggressivo e il più “politically incorrect” di tutti, con battute sessiste (le donne sarebbero tutte “grassi maiali”, “cani” e “animali disgustosi”) e xenofobia spiccia (“gli immigrati messicani sono violentatori”, invocando la costruzione di un muro).
Trump ha detto che potrebbe presentarsi come indipendente, qualora non riuscisse a diventare il candidato dei repubblicani
Ma questo atteggiamento non lo ha fatto vincere nei sondaggi tra i candidati repubblicani alle presidenziali, dato che sembrano andar lievemente meglio – senza entusiasmare però – Jeb Bush e il governatore del Wisconsin Scott Walker, mentre convincono maggiormente Mike Huckabee, ex governatore dell’Arkansas, l’attuale governatore dell’Ohio John Kasich e il giovane senatore della Florida Marco Rubio. Trump non s’è detto affatto preoccupato, dicendo apertamente che potrebbe presentarsi come indipendente qualora non riuscisse a diventare il candidato dei repubblicani, diventando quindi una sorta di “terzo incomodo” in un sistema come quello statunitense, rigidamente ancorato agli schemi del bipolarismo. Senz’altro la scorrettezza di Trump non faciliterà il suo percorso politico, visto che nel 2008 l’elettorato moderato arrivò a bocciare la fascinosa governatrice dell’Alaska Sarah Palin per certe sue esternazioni “fondamentaliste”, poi “retrocessa” a leader degli ultraconservatori del Tea Party.
La possibile candidatura di Trump come indipendente o nelle file repubblicane, però, potrebbe lasciar perplessi di primo acchito: la sua eventuale elezione, visto il suo vasto patrimonio, non creerebbe un caso eclatante di conflitto d’interesse? Da noi, in Italia, il problema ha assunto notorietà nazionale da quando Silvio Berlusconi si candidò nel 1994 per guidare il centro-destra. Il conflitto è, nel caso di Berlusconi, rappresentato dalla titolarità contemporanea – in prima persona o per mezzo di familiari o collaboratori – di funzioni pubbliche, del gruppo televisivo Mediaset, e di ingenti proprietà nel settore assicurativo, sportivo, edile, editoriale, ecc., che per diversi giuristi determinerebbe l’impossibilità legale d’essere eletti. La risoluzione del Parlamento europeo 20 novembre 2002, al paragrafo 38, deplorava come nel nostro paese «permanga una situazione di concentrazione del potere mediatico nelle mani del presidente del Consiglio, senza che sia stata adottata una normativa sul conflitto d’interessi». Il problema non tocca solo la destra e Berlusconi, ma il sardo Soru, fondatore di Tiscali e uomo del Pd, Emma Marcegaglia e Luca Cordero di Montezemolo.
Negli Stati Uniti, una rigorosa legislazione impedisce la possibilità di conflitti d’interessi
E negli States? L’America è senz’altro un paese pieno di contraddizioni. Ma lì una rigorosa legislazione impedisce la possibilità di conflitti d’interessi, nonostante i due principali partiti – i Democratici e i Repubblicani – subiscano condizionamenti da parte di lobby economico-finanziarie, capaci di cambiare le sorti di dibattiti parlamentari, iter legislativi e addirittura campagne elettorali. Si pensi alla lobby del petrolio e la politica estera americana in Iraq sotto Bush.
MESSAGGIO PROMOZIONALE
Quello che però differenzia gli Stati Uniti è l’esistenza, oltre alle leggi, di un’etica diversa: sia il sistema legislativo che l’esecutivo si reggono su una metodologia comune per le prescrizioni relative agli interessi finanziari, presente in un documento federale, l’Ethics in Government Act, perno della disciplina federale sul conflitto di interessi. Inoltre, nel sistema federale e in quello degli Stati membri, i pubblici ufficiali sono costretti a rendere pubblici tutti i propri investimenti e interessi, i posti occupati, le proprietà e il reddito, compresi addirittura i regali. Nel sistema legislativo americano sono presenti delle proibizioni standard contro abusi personali del potere pubblico, quali corruzione ed estorsione.
Ecco perché un’eventuale vittoria di Donald Trump non verrebbe vista con diffidenza né da Democratici né da Repubblicani né dall’opinione pubblica statunitense: per prevenire conflitti d’interessi paragonabili a quello di Berlusconi, esiste un intero corpus legislativo fondato sulla nozione di “pubblico ufficiale”, che ogni politico americano cerca di applicare, autodefinendosi in tal senso. Regole ferree che regolano i conflitti d’interesse esistono anche per i membri del Congresso. Le Regole del Senato degli Stati Uniti d’America limitano l’ammontare delle entrate aggiuntive ed esigono dichiarazione della situazione finanziaria dei suoi membri, mentre alla Camera i suoi membri sono soggetti al “Code of Official Conduct“ (il “Codice di comportamento ufficiale”), i loro redditi aggiuntivi sono limitati e devono dichiarare scrupolosamente i dati della loro situazione finanziaria.
Inoltre negli Stati Uniti è usuale utilizzare il qualified blind trust, cioè un “trust” (“amministrazione fiduciaria”) in cui il pubblico ufficiale colloca tutti i suoi averi, rispondendo a caratteristiche rigorosissime per quanto riguarda il trustee (colui al quale vengono affidati questi averi) e anche relative al termini del trust. Il politico non deve aver avuto in passato alcun rapporto con l’“amministratore fiduciario” e non potrà comunicare con lui durante il corso del trust. Il trustee può fornire solo informazioni specifiche relative alla vendita dei beni e le informazioni necessarie per motivi fiscali. I trusts, in nome di un’etica che impone la trasparenza, sono supervisionati e disponibili al pubblico per eventuali controlli.
In passato la cosa è stata proposta per risolvere il conflitto di Silvio Berlusconi, anche se, già da subito, i legali delle aziende berlusconiane e i suoi parlamentari – ecco cosa significa “conflitto d’interessi” – hanno sempre fatto ostruzionismo per una sua eventuale attuazione («“I nostri uffici legali stanno studiando il modo di adattare la legislazione americana a quella italiana”, dicono in Fininvest. Le intenzioni si confondono un po’, però, quando aggiungono che già oggi il gruppo è gestito come un blind trust da Fedele Confalonieri [collaboratore di Berlusconi, ndr] e altri dirigenti», riportava il Corriere della Sera il 6 aprile 1994).
L’America, non essendo un paese centralista, non ha una sola legislatura a riguardo. Stati come la California hanno leggi molto più severe, come il Political Reform Act of 1974, amministrato da un unico organismo, la Fair Political Practices Commission (la Commissione di garanzia di equità nel comportamento politico”). In base a tale legge, il “pubblico ufficiale” deve render conto di tutti gli investimenti, gli interessi, le posizioni occupate, le proprietà immobili, gli averi e, addirittura i doni. Cosa non meno importante, in base al Political Reform Act of 1974 è reato per il “pubblico ufficiale” partecipare a una decisione governativa, se quella decisione riguarda gli interessi finanziari dello stesso ufficiale: ecco come si risolve in America la questione delle cosiddette ed eventuali “leggi ad personam”.
L’Italia avrebbe da imparare anche solo da alcune legislazioni di altri Paesi dell’Unione Europea
Si è citata l’America perché l’interrogativo è venuto fuori riguardo al miliardario Donald Trump, ma l’Italia avrebbe da imparare anche solo da alcune legislazioni di altri Paesi dell’Unione Europea: in Spagna l’articolo 98 della Costituzione vieta ai membri del governo l’esercizio di altre funzioni amministrative al di fuori di quelle proprie del mandato parlamentare, e anche lì esiste una sorta di blind trust; in Austria la Costituzione pone dei limiti al presidente, ai ministri, ai segretari di Stato federali e ai membri di governo locali, mentre una legge del 1983 vieta l’esercizio di attività a scopo di lucro e l’obbligo di comunicare tali attività a un comitato per le incompatibilità e la decadenza del mandato per coloro che abusano della loro posizione a fini di lucro; nel Regno Unito, pur non essendoci un’apposita normativa, è prassi consolidata che ai parlamentari non sia consentito favorire i propri interessi privati durante le discussioni politiche, e spetta alla Camera dei Comuni dettare regole nei loro confronti. Inoltre, un deputato deve sempre chiarire interessi e redditi personali provenienti da ambiti esterni all’attività istituzionale. Una risoluzione del 1976 istituisce un organo di controllo delle situazioni di conflitto.
In sintesi, i casi europei e quello americano – fermo restando che anche all’estero esistono scandali – insegnano che l’etica e la politica non sono inversamente proporzionali, e che uno dei grossi difetti dell’Italia è stato quello di non aver introdotto normative atte non a regolare i conflitti d’interesse, ma a renderli impossibili. È anche per questo che l’opinione pubblica italiana si sente estranea dalla politica, proprio perché concepisce quest’ultima come un mezzo per arricchirsi e aumentare il proprio potere, anche economico.