Un fatto: il prossimo primo dicembre, Woody Allen compirà ottant’anni. What’s Up, Tiger Lily?, il suo primo lungometraggio, in Italia (poco) conosciuto come Che fai, rubi?, è uscito nel 1966. Quindi, una precisazione al fatto: Allen compirà ottant’anni e nel giro di un altro anno festeggerà i suoi cinquanta dietro la macchina da presa. A un ritmo, va precisato, che pochi altri registi, sceneggiatori e attori sono stati capaci di avvicinare. Cinquant’anni di scrittura frenetica, sempre alla rincorsa, cominciati per soddisfare un bisogno innato di comicità e stabilizzatisi sulla necessità di continuare a tradurre i propri pensieri in pellicola. «Fare film mi tiene in vita», ha dichiarato recentemente al Wall Street Journal, e c’è qualcosa di comprensibile in un’affermazione del genere. La ragione che, a certi livelli, giustifica i suoi alti e bassi.
La filmografia di Allen degli ultimi dieci anni è lo specchio del suo modo di fare cinema: una composizione di frammenti, di sporadici spiragli sul genio ingrigito — ma non ancora superato — e tentativi di adeguazione ai tempi, non propriamente necessari. Ogni volta che esce una sua nuova pellicola, il pubblico ha il cinquanta percento di speranza che provenga dalla metà buona della creatività e non riesce a farsi una ragione del fatto che, con tutta probabilità, non lascerà la sala pienamente soddisfatto.
Forse, il trucco sta nello smettere di pensare a Io e Annie e cominciare a rivolgere le proprie aspettative a termini di confronto più recenti. E più simili alle condizioni attuali del regista, prendendo in considerazione un declino che per chiunque sarebbe fisiologico ma nel caso di Allen è contenuto al punto da lasciare ancora intatta la convinzione che prima o poi tornerà quello di un tempo. Allora potremmo apprezzare veramente i particolari che rimandano allo splendore degli anni Settanta, quando tutta l’ironia amara che lo ha reso unico era delegata ai dialoghi. Per buttarla nel sentimentale: «Il cibo qui è disgustoso». «Già, e lo servono in porzioni minuscole». Un paradosso memorabile, che oggi suona come una profezia. Il suo cinema arriva in porzioni abbondanti — un film all’anno, ma sembrano due — e non ha più il gusto di una volta. Siamo abituati troppo bene, non possiamo accettare che lo chef stia perdendo colpi e che il nostro palato abbia smesso di stupirsi alla specialità che un tempo abbiamo adorato.
Quello che era solito passare per la sceneggiatura, oggi, con un po’ di pazienza, lo si può leggere nell’esecuzione. Irrational Man — presentato a Cannes, nelle sale americane dallo scorso 17 luglio e destinato all’Italia in 25 dicembre — è la risposta di qualità a Magic in the Moonlight (2014). Così come Blue Jasmine (2013) è stata per To Rome With Love (2012)— ma sarebbe stata la stessa cosa senza Cate Blanchett? Una domanda retorica —, Midnight in Paris (2011) per Incontrerai l’uomo dei tuoi sogni (2010), Vicky Cristina Barcelona (2008) per Cassandra’s Dream (2009), Match Point (2005) per Scoop (2006) e così via in un pattern che si ripete ormai da una ventina d’anni. Una danza lungo il confine delle aspettative, che toglie il gusto della sorpresa.
Il trucco sta nello smettere di pensare a Io e Annie e cominciare a rivolgersi a termini più recenti
La trama di Irrational Man è brutale e i suoi protagonisti — nei volti di un sempre bravo e panciuto Joaquin Phoenix e di una quantomai matura Emma Stone, spalleggiati da Parker Posey e nessun altro — sguazzano nel nero del nero dei sentimenti umani. Giocano con la morte altrui lasciandosi prendere dal gusto del macabro a un livello tale da far dimenticare che per la maggior parte del film il peggiore dei peccati è l’adulterio. Però le scene sono luminose, la fotografia è lussureggiante, la piccola università del New England che fa da ambientazione riflette una luce irrazionalmente innocente e positiva. A guardare il film senza sonoro, si avrebbe la sensazione di un ritorno alla commedia filosofica. Qui sta il genio: quello che non è più capace di dire con i dialoghi, lo lascia fare al contrasto tra un ambiente idilliaco e una delle storie più nere alle quali abbia mai pensato. La morte di un giudice corrotto e la depressione di un professore che non trova altro scopo nella vita che l’omicidio. Occasionale, ben architettato e sempre sostenuto da una forte componente logica, ma pur sempre omicidio. Tematiche che ben si sarebbero adattate ai toni scuri di Manhattan (1979)o La rosa purpurea del Cairo (1985), ma che per fortuna hanno trovato il proprio sbocco solo ora. Quando, finalmente, possono fare a meno della banalità.
Allen è cambiato. Allen è invecchiato. Allen si aggrappa a tutto quello che può lasciare al mondo per non cedere alla depressione. È come il suo alter ego in Hollywood Ending (2002): un regista cieco, ma in grado di confezionare un capolavoro — per i francesi, quantomeno — pur di non abbandonare il posto dietro la camera. Poco prima di scrivere Nemesi e di sollevare per sempre le mani dalla tastiera, Philip Roth ha dichiarato: «Un altro libro mi ucciderebbe». Lo stesso ragionamento che porta a conclusioni diverse, ma in entrambi i casi a una presa di posizione precisa: non lasciare che la vecchiaia si porti via il genio. Se oggi subiamo il declino di Allen, non possiamo dare la colpa a un processo che prima o poi toccherà a tutti, quanto a tutte le volte che ci siamo distratti dai suoi film per appesantirgli l’esistenza. L’insensata convinzione che ogni suo film debba essere una commedia e che ogni sua commedia debba essere in qualche modo straordinaria nasce da noi in quanto pubblico viziato, e non da una sua fantomatica pretesa — che, dopotutto, è solo quella di rimanere in vita.
Ogni commedia oggi è un potenziale disastro. Basta guardare agli ultimi dieci anni per rendersi conto che — fatta eccezione per Basta che funzioni (2009), che però è stata scritta nel 1970 — Broadway Danny Rose (1984) non tornerà mai più. Rimangono inalterate l’amarezza e la misantropia, la crudeltà e la precarietà del genere umano, ma bisogna andare a cercarle al di fuori dell’atteso. In film come Irrational Man o Match Point (2005), nascoste tra le pieghe del dramma. Bisogna avere la pazienza di capire e di rileggere. Tempo ce n’è, che fortunatamente è ancora presto per tirare le somme.