SaluteInside Out scoperchia un problema: l’abuso di psicofarmaci sui bambini

Abitudine pericolosa in voga in Usa e Nord Europa, ma non in Italia. Non sono ancora chiari gli effetti su crescita e sviluppo

C’è chi nell’ultimo film della Pixar “Inside Out” ha visto una presa di posizione contro l’abuso di psicofarmaci che da diverso tempo caratterizza gli adolescenti americani. Al di là delle interpretazioni, una cosa è certa: il bambino, come l’adolescente è un individuo in continua evoluzione e cambiamento. Ma come si può capire quando la normalità sconfina nel patologico? E soprattutto: che effetti possono avere gli psicofarmaci su una persona in via di sviluppo? Un’altra cosa certa è che, almeno in Italia, l’uso di questi farmaci è molto limitato, e che anzi, nella gestione dei farmaci per la sindrome da deficit di attenzione e iperattività (Attention Deficit/Hyperactivity Disorder, Adhd) siamo all’avanguardia rispetto ad altri Paesi.

«In Italia, stando ai dati di prescrizione, i tassi di consumo di questi farmaci nella popolazione pediatrica sono molto bassi, intorno a due bambini per mille abitanti minori di 18 anni» spiega aLinkiesta Antonio Clavenna, responsabile dell’Unità di Farmacoepidemiologia del Laboratorio per la Salute Materno-Infantile presso l’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri. «Dai nostri studi, inoltre, abbiamo visto che questi valori sono rimasti stabili negli anni e non cambiano nemmeno spostandosi da una regione all’altra. Un limite dei nostri studi è che purtroppo non riusciamo a monitorare i farmaci in classe C, quelli non rimborsabili (come per esempio le benzodiazepine), perché non passano attraverso il Servizio sanitario nazionale (Ssn) e non sappiamo quanto vengono prescritti e utilizzati da bambini e adolescenti. Ma ci aspettiamo un tasso simile a quello dei farmaci antidepressivi (1 utilizzatore ogni mille abitanti)».

Di quali medicine si tratta? Sono farmaci antipsicotici, come la clorpromazina, la clozapina, l’aloperidolo, il risperidone, la quetiapina, l’olanzapina è così via, neurolettici utilizzati per trattare le psicosi, come schizofrenia o disturbo bipolare, che agiscono bloccando il recettore della dopamina e impedendo che il neurotrasmettitore svolga la sua azione. E poi ci sono anche gliantidepressivi, come il citalopram, paroxetina, sertralina, venlafaxina, che agiscono prevalentemente impedendo la ricaptazione della serotonina a livello sinaptico, e aumentando la disponibilità del neurotrasmettitore nel cervello (quantità non adeguate di serotonina si pensa siano alla base della depressione). Ma anche di farmaci per l’Adhd, come ilmetilfenidato, che è uno stimolante del sistema nervoso centrale che si pensa agisca bloccando la ricaptazione di dopamina e noradrenaina, favorendo la permanenza dei due neurotrasmettitori nello spazio sinaptico (nei pazienti affetti da Adhd, la concentrazione di dopamina nello spazio sinaptico risulta inferiore a quella osservata nei soggetti normali), e l’atomoxetina, un non-stimolante, che agisce solo sulla noradrenalina. Gli ansiolitici infine come il diazepam, alprazolam, lorazepam, triazolam ecc., benzodiazepine che favoriscono l’attività di un altro neurotrasmettitore, il Gaba, e il suo effetto sedativo, ansiolitico, miorilassante e così via.

Eccetto le benzodiazepine, che sono farmaci di classe C e vengono vendute in farmacia con ricetta bianca, tutti gli altri sono farmaci rimborsabili dal Ssn e dispensati con “ricetta rossa”. Nel caso del metilfenidato poi, in Italia, il farmaco si ritira in farmacia ma è distribuito solo per conto delle Asl, e richiede un piano terapeutico redatto da uno specialista, come il neuropsichiatra. Il farmaco inoltre è monitorato attraverso un Registro regionale e nazionale, e l’Italia è l’unico paese a farlo, il che permette anche di osservare i percorsi dei pazienti, dalla diagnosi alla terapia, e l’esito del trattamento. Altrettanto non si può dire a proposito di altri psicofarmaci: «Questo sistema vale solo per i farmaci per l’Adhd – continua Clavenna – non per gli altri antipsicotici. Ed è un problema, perché se da un lato i dati di prescrizione possono sembrare tranquillizzanti, nel senso che non c’è l’epidemia che vediamo negli Usa, sappiamo però che gli antidepressivi vengono prescritti quasi esclusivamente agli adolescenti, soprattutto alle ragazze, e direttamente dal medico di medicina generale, spesso senza la supervisione di uno specialista».

In America gli studi mostrano una prevalenza della popolazione pediatrica che fa uso di psicofarmaci, soprattutto di antidepressivi, intorno al 6%, e del 2-4% per i farmaci per l’Adhd. Nel Nord Europa invece, soprattutto nei paesi scandinavi, questa percentuale arriva intorno al 2 per cento. In Europa questa differenza in parte si spiega con una diversa prevalenza della malattia, che è maggiore al Nord (anche per motivi climatici), mentre negli Stati Uniti le ragioni sono altre. «Prima di tutto è una questione culturale, perché gli americani hanno una minor resistenza verso l’uso di psicofarmaci. Poi dipende anche dal sistema sanitario di tipo assicurativo per cui si preferisce il trattamento farmacologico rispetto quello psicoterapico che ha tempi e costi maggiori».

Nonostante parliamo di farmaci testati e sicuri, i cui effetti collaterali sono stati valutati in numerosi studi, in realtà ancora non ci sono studi che abbiamo mostrato gli effetti nel lungo periodo. «La maggior parte degli studi ha durata limitata e non va oltre le otto-dodici settimane» afferma Clavenna. «Si sa poco perciò di quello che può succedere quando il bambino cresce e diventa adulto. Che l’uso di psicofarmaci nei primi anni di vita possa alterare lo sviluppo neuro-comportamentale cognitivo è un po’ il timore di alcuni esperti. Il problema è che fare studi così ampi e a lungo termine ha dei costi molto elevati, sia economici che di impegno di risorse, che il pubblico non è in grado di sostenere».

L’Italia sembra comunque avere un approccio molto prudenteverso l’uso degli psicofarmaci. In parte perché per quanto riguarda l’Adhd, il metilfenidato è tornato in commercio solo nel 2007 e si usa relativamente da poco (in commercio fino agli anni ’80, fu ritirato dalla stessa azienda produttrice perché c’era il pericolo che venisse usato come sostanza stupefacente dai tossicodipendenti). Poi perché i neuropsichiatri tendono a prescrivere la terapia farmacologica solo quando gli altri interventi sono inefficaci. Motivo per cui riguarda solo un numero molto limitato di bambini con Adhd.

«Bisogna distinguere tra l’eccesso di trattamento che sicuramente esiste, anche se non in Italia, e i bambini che hanno dei sintomi che necessitano di una terapia a volte anche farmacologica» conclude Clavenna. «Ci sono bambini che hanno sintomi che se non trattati possono davvero compromettere la qualità della vita loro e dei genitori. L’importante è fare una diagnosi corretta della malattia, e questo sta un po’ anche alla competenza del neuropsichiatra. All’interno del registro di monitoraggio dell’Adhd comunque i diversi operatori hanno condiviso una serie di strumenti diagnostici di supporto per capire se il bambino ha problemi di tipo neuropsichiatrico o meno».

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