Andrej Cikatilo, soprannominato il Mostro di Rostov, Cittadino X, Lo squartatore rosso oppure Il Macellaio di Rostov, è stato uno dei più terrificanti serial killer della storia dell’umanità, colpevole, tra il 1978 e il 1990, di 56 omicidi. Uccideva chiunque: donne, uomini, bambini, adolescenti, adulti. La sua vittima più giovane si chiamava Igor’ Gudkov e aveva sette anni. La più anziana Marta Rjabenko, che di anni ne aveva 44. Adescava le sue vittime, le uccideva e le mutilava. Poi spariva.
Ci sono due modi di raccontare la storia di Cikatilo. La prima, quella tipica del thriller o del poliziesco la vorrebbe raccontata da un punto di vista esterno, magari quello del detective. La seconda, invece, è entrare nel cervello di Cikatilo, e raccontare la sua storia con la sua voce, dal suo punto di vista. Questo secondo, tra i due, è il modo più difficile ed è anche quello che Andrea Tarabbia, già autore del bellissimo e durissimo Demone a Beslan (Mondadori, 2011), ha scelto per il suo terzo romanzo, intitolato Il giardino delle mosche, da poco in libreria per Ponte alle Grazie.
«Quando ho fatto leggere questo libro ad alcuni editori ho avuto più di un rifiuto», racconta Tarabbia, «qualcuno lo riteneva un libro difficilmente piazzabile sul mercato proprio per la natura di ciò che racconto. Anche se il mio non è un libro violento in sé — negli atti che racconta non è un libro eccessivamente splatter — è un libro violento perché chi legge sa già molte cose sul personaggio di Cikatilo e, anche per questo, è fisicamente difficile per il lettore — così mi hanno detto alcuni — avanzare con la lettura».
Perché per alcuni raccontare il male in prima persona è immorale?
Io credo che chi pensa che scrivere un libro come questo sia un atto immorale faccia un errore di fondo, un errore che trovo spesso anche in commenti da parte dei lettori. L’errore è credere che io scriva i miei romanzi mettendomi dalla parte del cattivo per cercare di giustificarlo, per mostrarne le “ragioni”, per quanto possa sembrare assurdo il termine “ragione” nel contesto di personaggi come Cikatilo o come il Marat Bazarev del Demone a Beslan.
«I serial killer, dal Silenzio degli innocenti in poi, sono considerate delle persone fuori dal comune e sono persone cattive, punto. Ma purtroppo non è così semplice»
Ti era già capitato con il Demone a Beslan?
Sì in quel caso mi avevano accusato di aver preparato nella prima parte — quella del villaggio bruciato, della famiglia e del gatto crocifisso — le basi su cui costruire una sorta di compassione da parte dei lettori per i carnefici. Ma in realtà è esattamente il contrario. Per me è andare a cercare una verità storica e umana.In che senso verità umana?
I serial killer, dal Silenzio degli innocenti in poi, sono considerate delle persone fuori dal comune e sono persone cattive, punto. Ma purtroppo non è così semplice. C’è una cosa che ripeto spesso alle presentazione e che mi rendo conto che possa anche suonare orrenda: Cikatilo, la cui vita è durata 58 anni, ha avuto circa un centinaio di giorni di follia totale, ma per il resto del tempo è stato un uomo pieno di problemi, di idiosincrasie, e anche di malattia. E a me interessa quella parte. Se partiamo dal concetto che la letteratura è un modo per leggere il reale, interpretarlo e restituirlo, allora quella parte è reale. E non posso fare finta che non ci sia.Che altre reazioni hai avuto da parte dei lettori?
In molti mi hanno detto che il problema è che sembra che non tenga conto delle vittime. Ci ho riflettuto molto, ed è un discorso che un lettore mi può fare, e che, pur non essendo per niente d’accordo, mi sembra che abbia più senso del discorso sull’immoralità. È un’obiezione che posso accogliere, anche se non la posso accettare.Perché?
Perché io in realtà parto dalle vittime. È successo che nel mondo è esistito Cikatilo, ha fatto delle vittime, ha rovinato delle famiglie, ha spaventato un mondo intero e io proprio per quello lo vado a cercare. Io parto dalla vittima e mi chiedo perché sia stata uccisa, come e da chi. Quali siano le ragioni sociali, politiche, psicologiche che hanno portato qualcuno a fare il male. Però io per questioni mie, di capacità o di incapacità di scrittura, per narrativizzare queste storie ho bisogno di prendere il punto di vista del cattivo, devo entrargli nella testa. Non riesco a parlare con il punto di vista della vittima. Riesco a dare dignità alla vittima nel momento in cui è vittima, e quindi nel momento in cui vedo il mondo dal punto di vista del carnefice.Perché c’è bisogno di raccontare il male in questo modo così disturbante?
Non so se hai letto Supplizio del legno di sandalo, di Mo Yan, un libro straordinario, ma che è talmente crudo nel descrivere gli impalamenti — descritti per 200 pagine su 500 totali — da essere veramente un pugno nello stomaco per il lettore, anche perché si parla di boia cinesi di fine Ottocento inizio Novecento, gente non troppo delicata con le proprie vittime. In particolare c’è un capitolo che si intitola “il capolavoro” che in venti pagine descrive la tortura subita da un personaggio a cui veniva tagliato un pezzo alla volta. Il capolavoro si riferiva esattamente a quando il condannato moriva alla 500esima asportazione, non prima e non dopo. È inutile dire che la sofferenza da parte del lettore è totale, si fa fatica a voltare pagina. Alla fine Mo Yan dice una cosa: le descrizioni delle terribili torture che avete letto sono da una parte un documento storico, che testimonia il fatto che, nella storia, degli uomini hanno fatto queste cose ad altri uomini. Fatevene una ragione. Poi aggiunge che, se ha deciso di raccontare queste torture nei dettagli non è per una volontà estetizzante o perché mi piace descrivere la tortura, ma l’ho raccontato come se fosse una lezione morale. Perché solo rappresentando veramente cos’è la mostruosità si può essere “pedagogici” — lui usa questa parola, io non l’avrei mai usata, ma prendiamola così — perché la letteratura non deve confortare.«La verità è che noi non siamo più abituati a accettare il fatto che qualcosa che ci è lontano da noi, che è respingente e che è considerato malvagio, se lo studiamo e lo vediamo da dentro, invertendo il punto di vista, lo troviamo molto più vicino a noi»
Perché mettersi nei panni dei cattivi è considerato un tabù?
Littell all’inizio de Le Benevole scrisse così: «si tratta di una storia cupa, ma anche edificante, un vero racconto morale, ve l’assicuro. Rischia di essere un po’ lungo, in fondo sono successe tante cose, ma se per caso non andate troppo di fretta, con un po’ di fortuna troverete il tempo. E poi vi riguarda: vedrete che vi riguarda». Vi riguarda. Il male ci riguarda, tutti. Io credo che il mettersi nei panni dei nazisti sia un tabù ancora più forte del mettersi nei panni dei cattivi. Un tabù che è complicatissimo da attaccare. C’è un bellissimo racconto di Vercors che si chiama Il silenzio del mare in cui racconta di un ufficiale tedesco che deve restare ospite per un breve periodo a casa di una famiglia francese che, odiandolo, non lo guarda nemmeno in faccia e non gli parla. Il problema è che gli arriva un ufficiale bello, giovane, gentilissimo e colto, che ama la musica e la letteratura, una persona talmente affascinante che quasi la figlia se ne innamora. Quando se ne va, loro si accorgono che, pur non avendogli mai rivolto la parola, avevano iniziato a preoccuparsi per quando rientrava più tardi a casa e, in qualche modo, gli volevano bene. Prima di partire per il fronte lui gli dice che li capisce, che capisce il loro odio e il loro silenzio, ma che quando la Francia sarà finalmente sottomessa alla Germana le cose si sistemeranno e finalmente anche i francesi saranno all’altezza della razza germanica, rivelando il suo essere insieme un nazista e una persona colta, interessante e gentile.Ma anche lui ha il suo aspetto delirante?
Eh no, il problema è proprio questo: il nazista non è delirante. La verità è che noi non siamo più abituati a accettare il fatto che qualcosa che ci è lontano da noi, che è respingente e che è considerato malvagio, se lo studiamo e lo vediamo da dentro, invertendo il punto di vista, lo troviamo molto più vicino a noi. È uno shock, ma è così. Il fatto che uno squartatore come Cikatilo o un ufficiale nazista sia stato anche una persona con cui si poteva parlare di Ravel, per dire, è una cosa che ci sembra fuori dal mondo.«Siamo sempre meno abituati ad affrontare il lato oscuro che ci riguarda, perché appena ci viene il minimo sospetto che quella cosa ci riguardi, noi la teniamo lontana, e così fanno molti romanzi, che tengono queste cose nell’ombra»
Perché è così complicato?
Perché ci hanno insegnato che nella vita o si è bianchi o si è neri. Ma nella realtà non è così. È per questo che quando racconti da dentro vite del genere, fermo restando che abbiano compiuto le peggiori nefandezze della storia dell’Uomo, ti rendi conto che hanno avuto anche uno spessore umano. Erano degli uomini anche loro, non sono cose diverse da noi. È per questo che Littell scrive “ti riguarda”, perché il male ci riguarda, è dentro di noi; e ti riguarda magari molto di più della storia di una delle protagoniste di Sex & the city. Certo, per fortuna è falso che siamo tutti dei serial killer, ma è vero che siamo tutti degli uomini, anche Cikatilo, anche il nazista di Vercors. Siamo sempre meno abituati ad affrontare il lato oscuro che ci riguarda, perché appena ci viene il minimo sospetto che quella cosa ci riguardi, noi la teniamo lontana, e così fanno molti romanzi, che tengono queste cose nell’ombra. Nei miei romanzi io invece cerco di puntargli addosso il riflettore. Da una parte quindi capisco quando mi dicono che il mio libro è “immorale”, dall’altra parte però sono convinto che la vera immoralità non è dipingere l’uomo per quello che è, in tutta la sua complessità, ma dipingerlo per quello che non è. Non voglio fare nomi o esempi, ma mi sembra molto più immorale descrivere il mondo incasellando tutto nel nero o nel bianco: il mondo non è così.Nel Demone a Beslan emergeva un mondo in cui tutti erano cattivi, persino i bambini, perché questa scelta?
Io nel Demone non volevo avere personaggi completamente piatti, né volevo cadere nella trappola del pietismo e della lacrima facile. E non volevo giudizi, volevo che non si salvasse né si condannasse nessuno, neppure i bambini. Per questo anche i bambini sono cattivi. E lo volevo perché sono convinto che nella vita sia così: se fossi una vittima io credo che il sentimento che proverei per il carnefice sarebbe l’odio. Primo Levi è un odiatore: scrive Se questo un uomo come se fosse un dito puntato, con dentro un rancore enorme e chiaramente giustificato, però, pur essendo un sentimento giusto, è un sentimento negativo. E questa secondo me è la cosa più umana, più bella e più giusta.È complessa però…
Sì, certo, però se si tenta di far letteratura bisogna fare i conti con la complessità, altrimenti che senso ha?«La lettura come consolazione, come tranquillizzante occupazione del tempo libero, a me non interessa per niente. Per me il libro deve prenderti a schiaffi. Se non ti lascia dentro qualcosa instillato in profondità, se non ti tiene sveglio di notte e non ti cambia la giornata, non vale la pena di leggerlo»
Il fenomeno degli haters sui social network ha fatto emergere una tipologia di odio molto diffusa ed estremamente virulenta. Di questi tempi l’odio è un sentimento abusato?
Ci sono tante forme d’odio, ma sicuramente in questo momento è un sentimento molto “usato”, anzi direi quasi abusato. Però ogni tanto è anche declinato in una maniera giusta. L’Isis, per esempio, è la prima organizzazione terroristica mondiale che veramente riesce a mettere d’accordo tutti, perché tutti la odiamo. E nessuno mi sembra che protesti. E io credo che la letteratura serva anche a questo, a dimostrare che ogni tanto anche l’odio può essere giusto. Anche se ci hanno cresciuto raccontandoci che ci dobbiamo volere tutti bene, però in realtà non funziona così. Il porgere l’altra guancia mi è sempre sembrata una posa; perché io credo che nella maggioranza dei casi nessuno abbia voglia di porgere l’altra guancia.Cosa cerchi di ricreare nei tuoi libri?
Questa dimensione della non nitidezza dei sentimenti mi interessa tantissimo. È questo che voglio ricreare nei miei libri, voglio soffermarmi sulle sfumature. Non mi interessa per niente scrivere un libro dove il buono è il buono e il cattivo è il cattivo. Non mi dà niente. Quello che mi interessa è scavare, è scoprire le contraddizioni e le idiosincrasie che poi portano degli uomini a commettere le peggiori efferatezze, che sono oggettivamente terribili come quelli di Cikatilo, ma che non esistono da sole. A me interessa soprattutto tutto quello che ci sta intorno, di fianco, sotto.Quindi per te la letteratura deve perturbare, non consolare…
Certo, la lettura come consolazione, come tranquillizzante occupazione del tempo libero, a me non interessa per niente. Per me il libro deve prenderti a schiaffi. Se non ti lascia dentro qualcosa instillato in profondità, se non ti tiene sveglio di notte e non ti cambia la giornata, non vale la pena di leggerlo. Anche perché ho fatto il conto: io, che leggo tanto, leggo tra gli 80 e i 100 libri all’anno. Al momento ho 37 anni, mettiamo che mi vada bene e che ne viva altri 50. Sono 5.000 libri, non sono tanti. A me l’idea di leggermi cazzate consolatorie non mi va. E come non mi va di leggerne non mi va di scriverne, dire quello che la gente vuole sentirsi dire a me non interessa. La letteratura deve essere disturbante. Io non so che libri ami tu, ma io amo quelli che mi sconvolgono e mi restano dentro. I libri più grandi sono quelli che maltrattano il lettore, che cambiano le carte in tavola, e secondo me cambiare le carte in tavola vuol dire scoperchiare, ribaltare, mettere in discussione i nostri tabù, superare i nostri limiti. Per me il ruolo della letteratura è questo, se no tanto vale fare altro.