Nel maggio del 2012, i capi di Stato dei Paesi Nato si riunirono a Chicago. Dovevano discutere il modo in cui portare a termine la missione internazionale in Afghanistan, che si trascinava ormai da undici anni e che Barack Obama aveva promesso di concludere nel corso del suo secondo mandato.
Per le strade del centro di Chicago comparvero grandi poster che mostravano due figure interamente coperte da un burqa azzurro e, tra loro, una bambina a volto scoperto che guardava verso il fotografo. L’immagine era accompagnata da due slogan: «Human rights for women and girls in Afghanistan» (“diritti umani per le donne e le ragazze in Afghanistan”) e, più sotto, «Nato: keep the progress going!» (“Nato: continua a far avanzare il progresso!”).
Si trattava di una campagna di pressione messa in atto dalla sezione americana di una delle più importanti associazioni per i diritti umani del mondo, Amnesty International, che invitava senza mezzi termini a continuare l’occupazione militare per assicurare un futuro migliore alle donne dell’Afghanistan.
In altre parole, un’associazione per i diritti umani promuoveva la continuazione di un’azione violenta – una missione militare straniera con un nemico preciso, i talebani – per garantire una vita migliore alla popolazione locale.
Si potrebbe giustificare questa presa di posizione con il principio del “male minore”. Meglio 130 mila soldati stranieri nel Paese che il regime degli estremisti islamici.
Ma i combattimenti hanno portato alla morte di migliaia e migliaia di civili (circa 26 mila al gennaio del 2015, secondo una stima recente della Brown University) e non poche di esse sono da attribuire al fuoco incrociato, all’esplosione di bombe lasciate indietro dai combattenti – sia gli Ied dei ribelli che le cluster bombs della Nato – e a tragedie come, per fare l’esempio più recente, l’attacco aereo all’ospedale di Msf di Kunduz che ha ucciso 22 persone.
È chiara la contraddizione. E proprio dall’esempio della campagna di Amnesty Usa del 2012 parte The Human Right to Dominate, scritto dall’italiano Nicola Perugini e dall’israeliano Neve Gordon, e pubblicato a luglio 2015 dalla Oxford University Press.
La tesi del saggio è che esiste una correlazione, sviluppatasi all’incirca negli ultimi quindici anni, tra i diritti umani e la “dominazione”, cioè la continuazione di rapporti di forza basati sul dominio.
Prova ne è l’appropriazione del discorso sui diritti umani anche da parte delle forze politiche più conservatrici. «Se durante gli anni Ottanta e Novanta – scrivono – i conservatori negli Stati Uniti tendevano a rifiutare la cultura in espansione dei diritti umani ed erano spesso ostili ad essa, all’inizio del nuovo millennio essi cominciarono a modificare la loro strategia, abbracciando il linguaggio dei diritti umani. Questo cambiamento è parte di un fenomeno globale».
Così, molti eserciti del mondo hanno cominciato a tenere corsi di diritti umani per le proprie truppe, e le politiche della destra e della sinistra nella gestione degli affari internazionali hanno mostrato un’insolita convergenza.
I diritti umani presentano un problema in quanto sono tutelati e promossi dagli Stati nazionali, gli stessi che, nella stragrande maggioranza dei casi, finiscono per violarli
Esistono ragioni storiche e concettuali all’origine di questi problemi, sostengono gli autori. Per prima cosa, i diritti umani presentano un problema in quanto sono tutelati e promossi dagli Stati nazionali, gli stessi che, nella stragrande maggioranza dei casi, finiscono per violarli. E ciò avviene nonostante molte dichiarazioni di principio sulla difesa dei deboli anche contro e in opposizione diretta agli Stati.
Allo stesso modo, quando le strategie delle Ong si basano sul ricorso ai tribunali nazionali perché tutelino i suoi cittadini, esse non fanno altro che fornire ulteriore legittimazione agli stessi sistemi che hanno reso possibili quelle violazioni.
In secondo luogo, i diritti umani come li intendiamo oggi sono una creazione storicamente e perfino geopoliticamente ben determinata: una conseguenza del nuovo ordine mondiale emerso alla fine della Seconda guerra mondiale, in larga parte influenzata dalla cultura e dall’elaborazione teorica occidentale.
Come è già stato sottolineato da decenni a questa parte, misure di “intervento umanitario” come gli embarghi e le sanzioni possono essere visti come strumenti dell’Occidente di mantenere il controllo e le relazioni di potere che risalgono all’epoca coloniale, basati su una visione di superiorità e primato culturale.
Queste critiche possono sembrare astratte o esagerate – e in effetti la prima parte del libro appare spesso confinata a un livello di discussione troppo poco concreto – ma nella seconda parte gli autori provano a mostrare un esempio significativo: quanto sta accadendo negli ultimi anni in Israele/Palestina.
Perugini e Gordon – che hanno esposto i loro argomenti principali anche in un articolo recente su openDemocracy – mostrano che il discorso sui diritti umani in Israele è stato poco a poco adottato anche dai gruppi legati al movimento dei coloni e alla destra politica.
Ad esempio, gli abitanti dei nuovi insediamenti israeliani, costruiti su territori che spetterebbero di diritto ai palestinesi e oggetto di condanna internazionale quasi unanime, vengono presentati da alcuni come cittadini perseguitati perfino dallo Stato di Israele, e i cui diritti umani vengono in definitiva violati.
In Israele, il discorso sui diritti umani è stato poco a poco adottato anche dai gruppi legati al movimento dei coloni e alla destra politica
A partire dal 1999 – con la fondazione della prima Ong per i diritti dei coloni, Yesha for Human Rights – diverse organizzazioni e gruppi di pressione in Israele hanno cominciato a far uso di questa retorica. Alla fine, alcuni di questi sono stati invitati ad assistere ai lavori del parlamento israeliano sulle questioni che riguardavano i diritti umani.
Non solo. Quando la missione Onu per accertare quanto accaduto durante l’offensiva israeliana contro Gaza nel 2009 pubblicò le sue conclusioni – il cosiddetto rapporto Goldstone – che accusavano sia i miliziani di Hamas che l’esercito di Israele di crimini di guerra e, in via dubitativa, di crimini contro l’umanità, il governo di Netanyahu fece sentire tutto il peso che gli Stati nazionali possono esercitare sulle critiche nei propri confronti.
Il primo ministro Netanyahu dichiarò nel dicembre del 2009 alla Knesset: «Davanti a noi ci sono oggi tre minacce principali: la minaccia nucleare, la minaccia missilistica e quella che io chiamo la minaccia Goldstone». Dopo mesi di pressioni, il giudice sudafricano Richard Goldstone – a capo della missione Onu e di religione ebraica – ha ritrattato nel 2011 le conclusioni più dure nei confronti di Israele (così non hanno fatto, però, i tre altri esperti della missione).
La complicata vicenda del rapporto Goldstone è un ottimo esempio della forza che detengono gli Stati nazionali nel dirigere o deviare il discorso sui diritti umani. Spesso le Ong non riescono a sfuggire a quella capacità di pressione.
Anche Human Rights Watch, un’altra delle organizzazioni più celebri del mondo nel settore, non sfugge alla critica di Perugini e Gordon
Anche Human Rights Watch, un’altra delle organizzazioni più celebri del mondo nel settore, non sfugge alla critica di Perugini e Gordon. «Hrw – scrivono – si concentra principalmente su quei casi in cui può rilevare un’applicazione della legge mancante o erronea o discriminatoria». Questo approccio, argomentano, può portare a sua volta a situazioni contraddittorie.
In un rapporto del 2013 sugli attacchi con i droni portati avanti dagli Stati Uniti, Hrw ha scritto – riferendosi a sei episodi in Yemen – che due di essi erano una chiara violazione delle leggi umanitarie, mentre sugli altri quattro restavano dubbi, perché non era chiaro se gli Usa avessero preso tutte le precauzioni necessarie per evitare danni ai civili.
L’idea implicita sembra essere che, se i bersagli fossero stati miliziani e allo stesso tempo tutte le precauzioni fossero state prese, allora anche le morti di civili si sarebbero potute giustificare. Perugini e Gordon commentano, ed è difficile dar loro torto, che ci si dovrebbe aspettare più coraggio da un’Ong per la difesa dei diritti umani.
Questo atteggiamento legalistico si ricollega ad alcuni problemi che Perugini e Gordon vedono diffusi in gran parte delle Ong per i diritti umani di oggi. Da un lato, queste si avvalgono sempre più di specialisti che partono dal presupposto di rappresentare le popolazioni locali, con un approccio “dall’alto”: «i diritti umani non provano ad essere uno strumento delle masse, ma solo di quegli esperti che rappresentano le popolazioni che subiscono ingiustizie».
Dall’altro, molte Ong fanno di tutto per apparire apolitiche, ma questo, dicono gli autori, non può che portare a un depotenziamento delle loro istanze: «La nozione che il cambiamento politico può essere ottenuto attraverso l’apparenza della neutralità politica è una manifestazione dell’impoverimento prodotto dal professionalismo dei diritti umani, che spesso porta le Ong del settore a rafforzare e a collaborare con le strutture di potere esistenti».
E quindi, il sistema dei diritti umani è da scartare? Certamente no, scrivono gli autori. Ma bisogna ripensare a fondo il rapporto tra le Ong e il potere, lavorare per «deprofessionalizzare» il settore, mostrare più coraggio nella critica a leggi nazionali e internazionali ingiuste. Il caso di Israele insegna che, già oggi, il discorso sui diritti umani ha raggiunto un tale livello di flessibilità da poter essere adottato da gruppi di pressione lungo tutto l’arco politico.
Quando pensiamo a dove stia la giustizia e la reale difesa dei diritti, nei conflitti di oggi, dobbiamo sempre tenere conto di quali sono i rapporti di forza e quali sono le strutture che non vogliamo mettere in discussione
Le critiche di Perugini e Gordon non sono nuove. Da decenni esiste un dibattito nelle scienze politiche sugli aspetti problematici della nostra cultura dei diritti umani, mosso da posizioni teoriche e accademiche e da altre più strettamente politiche (ne è un esempio il libretto di Slavoj Zizek Contro i diritti umani, del 2006).
La lezione di The Human Right to Dominate, ad ogni modo, non è tanto di mostrare che quella cultura sia del tutto sbagliata o basata su false premesse – per quanto gli autori si sforzino, le critiche di principio non riescono a convincere fino in fondo – quanto piuttosto che anche i diritti umani, presentati spesso come “universali” e assoluti, sono un prodotto dei loro (dei nostri) tempi.
Quando pensiamo a dove stia la giustizia e la reale difesa dei diritti, nei conflitti di oggi, dobbiamo sempre tenere conto di quali sono i rapporti di forza e quali sono le strutture che non vogliamo mettere in discussione. Dimenticarsene è, secondo gli autori, cadere in quella che chiamano «l’illusione dell’originale»: e cioè «la convinzione che esista qualcosa chiamato “diritti umani” esterno alle relazioni empiriche e storiche».