Sono passati tre anni dall’uscita nelle sale di Skyfall, il 23esimo film — apocrifi esclusi — dell’infinita serie dei James Bond, e ora tocca a Spectre, il quarto dell’era Daniel Craig, il secondo con alla regia Sam Mendes (American Beauty, Era mio padre, Revolutionary Road), il 24esimo da quando l’agente britannico più famoso della storia è uscito dalle pagine dei romanzi di Ian Fleming per debuttare al cinema con la faccia di Sean Connery. Era il 1962, e James Bond doveva vedersela con il Dottor No, guarda caso un membro della Spectre.
Cominciamo proprio da lì, da Spectre, un nome che, con tutto ciò che evoca, basterebbe da solo per prendere per il bavero chiunque nutra un minimo di familiarità e debolezza verso l’action movie e le spy stories, e trascinarlo al cinema più vicino. Perché Spectre — o meglio SPECTRE, visto che gli acronimi vogliono le maiuscole — oltre ad essere un marchio registrato che è costato un sacco di soldi e di tempo a chi il film lo ha prodotto, è un nome che è impregnato di James Bond come una maglietta dopo 42 chilometri e spicci è impregnata del sudore del maratoneta.
Se la grandezza di un uomo si misura su quella dei propri nemici, la grandezza di James Bond si misura proprio su Spectre, l’organizzazione criminale rappresentata da una piovra e guidata a partire dalla sua fondazione narrativa — dal 1961, nel romanzo di Fleming Thunderball — da Ernst Stavro Blofeld, il cattivo per eccellenza. Sì, esattamente quello che accarezza il gatto bianco. Un cattivone talmente maiuscolo da aver sigillato la propria immagine in quella mano che accarezza il felino, diventata per antonomasia l’immagine della più lucida e cinica malvagità.
Se la grandezza di un uomo si misura su quella dei propri nemici, la grandezza di James Bond si misura proprio su Spectre
Insomma: Spectre più Blofeld più Sam Mendes più 300 milioni di dollari, uguale tutto il necessario per aspettarsi un filmone, un degno seguito di Skyfall, correre al cinema e allacciarsi la cintura, pronti a godere dello spettacolo.
E invece no, perché questo Spectre non va mai oltre il compitino — un compitino da 300 milioni di dollari di budget, ma sempre un compitino — riprende quella stessa tradizione evocata dalla parola Spectre e la ributta in pellicola in maniera praticamente immutata, anzi, e forse anche peggio, in maniera stitica.
Che i film di James Bond siano un’operazione di costante riscrittura non solo lo si sa da sempre, ma è anche uno dei punti di forza del film, nessuno lo nega. D’altronde è anche quella costante riscrittura che rende possibile l’autoironia insita nel personaggio e nella serie. È una riscrittura ostentata, ribadita in ogni modo, visibile a livello extranarrativo — la ritualità ridondante della sigla cantata — ma soprattutto a livello narrativo, grazie all’uso reiterato di moduli sempre uguali. Roba che se ci fosse ancora tra noi il buon Vladimir Jakovlevič Propp ci scriverebbe un bel Morfologia di James Bond in un paio di tomi.
Non bastano 23 film alle spalle per guadagnarsi una pacca sulla spalla. Ritrovarsi a sbadigliare davanti a un action movie che è costato 300 milioni di dollari sottintende un reato gravissimo nei confronti dello spettatore, un reato grave quanto la lesa maestà in Inghilterra, uno gigantesco spreco
Il problema è che Vladimir Jakovlevič Propp è morto a Leningrado nel 1970, quando di James Bond ne era usciti già 6, già due erano stati gli attori a prestargli la faccia — Sean Connery, cinque volte, e George Lazenby, una — e almeno in quattro appariva come cattivone proprio Ernst Stavro Blofeld.
Cinquanta anni fa e 23 film fa forse funzionava. Ora non basta neanche ai più anziani in sala. Non basta pur spendendo circa 2 milioni di dollari al minuto, pur facendo deflagrare un intero isolato di Messico City e pur non lesinando negli inseguimenti e nei duelli a manate e a pistolettate. Non basta pur con un paio di bond girl di tutto rispetto (un’affascinatissima Monica Bellucci e una Léa Seydoux mozzafiato). Non basta pur facendo impersonare il cattivone da uno dei migliori impersonatori di cattivoni in circolazione come il premio Oscar Christoph Waltz. Non basta nulla di tutto questo questo: Spectre, che magari potrebbe interesserebbe il buon Propp, per uno spettatore del 2015 è un’odissea faticosa, lacunosa, in alcuni snodi addirittura sbrigativa e, duole scriverlo, noiosa.
Non bastano 23 film alle spalle per guadagnarsi una pacca sulla spalla. Ritrovarsi a sbadigliare davanti a un action movie che è costato 300 milioni di dollari sottintende un reato gravissimo nei confronti dello spettatore e del mondo, un reato grave quanto la lesa maestà, un abominevole spreco.
Pochi mesi fa uscì nella sale italiane Kingsman – Secret service, un film tratto non da un libro, ma da un fumetto, un film che condivide alcuni degli elementi che formano la grammatica di James Bond e che il buon Propp avrebbe appuntato come fondamentali tra le strutture della narrativa di spie: c’è il conto alla rovescia dei cattivoni per distruggere il mondo, c’è la passione sfrenata degli eroi per i gadget tecnologici e anche la passione — ricambiata — dell’eroe per le donne. Solo che Kingsman è fresco e divertente, dura 19 minuti meno di Spectre, ma a confronto sembra essere un cortometraggio. E quando lo hai finito hai quasi voglia di rivederlo. Game, set e match per Kingsman, che nel 2017 tornerà con il secondo episodio. E bye bye James.