Vanilla LatteStarbucks: basta giochetti, se entrate ditelo subito (e fatelo in grande stile)

Tre indizi fanno credere che questa volta l’ingresso della caffetteria in Italia non sia la solita bufala. Il mercato è pronto, ora la società dimostri coraggio

“Sarà vero?”. Migliaia di lettori italiani devono avere reagito più o meno così, la mattina di giovedì 15 ottobre, nel leggere l’articolo “Starbucks Missione Italia” firmato da Daniela Polizzi sul Corriere della Sera, che dava come ormai imminente la discesa sul suolo italico del gigante americano delle caffetterie. Lo stesso pensiero, di stupore misto a scetticismo, dev’essere passato anche per le menti di milioni di altri connazionali (e non solo) nel corso delle ore e dei giorni successivi, mentre la notizia rimbalzava di testata in testata facendo il giro del mondo e diventando argomento caldo sui social network.

Perché l’annuncio “Starbucks arriva in Italia” non è esattamente la prima volta che viene lanciato, nella storia recente. Anzi, sono state purtroppo molteplici le occasioni in cui, negli ultimi anni, la (finta) notizia si è diffusa sul web, tra voci di corridoio e leggende metropolitane, per poi lasciare in tanti a bocca asciutta. Al punto che il grido di “Starbucks arriva in Italia”, come un novello “Al lupo, al lupo” di pierinesca memoria, si è ormai guadagnato lo status di “bufala ricorrente”, al pari delle falsi lanci sulla morte di Fidel Castro, o della prossima venuta di Facebook a pagamento.

Il grido di “Starbucks arriva in Italia”, come un novello “Al lupo, al lupo”, si è ormai guadagnato lo status di “bufala ricorrente”, come i falsi lanci sulla morte di Fidel Castro o su Facebook a pagamento

Dunque, dati i poco fortunati precedenti, un pizzico di diffidenza, prima che le papille gustative già si attivino pensando al Frappuccino da sorseggiare sotto i portici della propria città di riferimento, non solo è lecito e comprensibile, ma in questo caso sacrosanto e consigliabile. Questa volta, tuttavia, la notizia sembra credibile. O almeno, più credibile che in passato. In primis perché proviene da uno dei quotidiani più antichi e autorevoli d’Italia. In secondo luogo, perché dopo che la stessa è stata ripresa dalle principali testate d’Europa, l’agenzia internazionale Reuters ha riportato che una fonte interna ha confermato che sì, effettivamente, ci sarebbero in corso trattative per portare il brand nel nostro Paese.

Infine, terzo elemento a suffragare la credibilità delle news sull’arrivo dello Starubcks tricolore, il nome che, stando a quanto riportato, sarebbe dietro la manovra, ovvero Antonio Percassi. Il quale è non solo ex difensore del Cesena e dell’Atalanta, affidabile imprenditore e rispettato businessman, ma soprattutto colui che, nel recente passato, è riuscito nell’impresa di portare sul territorio italiano i marchi di Zara e Victoria’s Secret. Non nuovo a operazioni di questo genere, avrebbe in effetti il profilo ideale per organizzare il matrimonio tra la più grande catena di caffetterie della galassia e l’Italia, uno dei pochi posti ancora Starbucks-free del pianeta.

Reuters ha riportato che una fonte interna ha confermato che sì, effettivamente, ci sarebbero in corso trattative per portare il brand nel nostro Paese

Elencati gli elementi per cui, questa volta, l’annuncio non pare essere una bufala, è pur sempre risaputo che, come vuole il noto proverbio, tre rondini non fanno un Pumpkin Spice Latte. Nemmeno se le rondini in questione si chiamano Corriere della Sera, Reuters e Antonio Percassi. Perché se è vero che, per sintesi giornalistica, furbizia da social network, o scaltrezza da click-bait, i titoli parlano di “Starbucks in Italia”, è altrettanto vero che, leggendo con attenzione gli articoli al riguardo, si evince che non si tratta ancora di una cosa certa. Anzi, la fase è ancora quella della trattativa, e “gli accordi dovrebbero essere firmati entro Natale”. L’elevata diffusione di verbi al condizionale, nei pezzi che raccontano il possibile sbarco della corazzata americana del caffè sulle nostre coste, dunque, impone una certa cautela.

Leggendo con attenzione gli articoli al riguardo, si evince che non si tratta ancora di una cosa certa, nonostante il coinvolgimento di una persona credibile come Antonio Percassi

E la stessa Corey duBrowa, portavoce di Starbucks, interpellata da Reuters al riguardo, ha tagliato corto, lasciando spazio a ben poche interpretazioni: «Rumors and speculation only. We have nothing to say». Ovvero, «Solo voci di corridoio e ipotesi. Non abbiamo alcunché da dichiarare». Ovvero, parliamo solo di fatti, non di supposizioni. Atteggiamento del tutto comprensibile, da parte di una multinazionale. Ma un no-comment che conferma, unitamente al silenzio di Percassi, che l’operazione, per quanto possibile e – si spera – probabile, ancora è lungi dall’essere completata. E a complicare ulteriormente lo scenario, la nascita di due profili Twitter dedicati a Starbucks in Italia (@StarbucksItaly e @StarbucksPress) nella giornata di venerdì, che annunciavano l’arrivo imminente degli store (“Ciao Italia, #Starbucks è qui! Ora anche su Twitter. Ci facciamo compagnia?”, recitava il primo tweet), ma che, oltre a non essere seguiti dalla casa madre, come avviene per tutti i profili ufficiali social della società nel mondo, sono rimasti in vita meno di 24 ore. Quasi sicuramente due profili “fake”, per quanto ben realizzati e gestiti, che hanno alimentato la confusione generale sull’argomento. Oggi non esistono profili social dedicati alla versione italiana di Starbucks, né su Twitter né su Facebook né altrove. Non c’è alcun sito web dedicato. E non c’è neppure Starbucks in Italia. Dunque, i fan dell’azienda possono mantenere le bottiglie di champagne ben tappate, e i suoi detrattori dormire sonni tranquilli, ancora per un po’ di tempo, poiché al momento non c’è alcuna inaugurazione o cerimonia di taglio del nastro all’orizzonte.

I profili Twitter dedicati Starbucks in Italia sono rimasti in vista meno di 24 ore. Quasi sicuramente erano dei fake

Howard Schultz lo aveva detto chiaro e tondo, nel marzo del 2013. Ospite della CNN, l’amministratore delegato di Starbucks, interrogato sul motivo per cui il suo franchise vanti quasi 23 mila avamposti in ogni angolo del pianeta tranne che in Italia, rispose con franchezza. «Ci sarà Starbucks in Italia, prima o poi. Abbiamo passato molto tempo a osservare il mercato e penso, candidamente, che aprire uno store in Italia, oggi, date le problematiche politiche ed economiche che ci sono, non sarebbe nell’interesse primario dei nostri azionisti», affermò l’imprenditore, con la skyline di Seattle a fargli da sfondo. «Tentiamo di procedere con cautela, ma un giorno ci sarà, in Italia, un locale di Starbucks».

Qualcosa è cambiato, forse. Certo, era il marzo del 2013, qui si era appena votato e, con nessun chiaro vincitore, non si riusciva a fare un governo. Eravamo reduci dall’esperienza di Monti e stavamo per iniziare quella di Letta. Sembra quasi passato un secolo e, col senno di poi, le parole di Schultz suonano alquanto ragionevoli: nessuno avrebbe avuto voglia di un Iced Skinny Mocha, mentre Prodi veniva impallinato dai centouno sulla via del Quirinale e quando Bersani si incontrava con Grillo. Ma ora i tempi sono diversi. Oggi c’è il giovane e rampante Renzi, la rottamazione, conoscerete la nostra velocità, i tweet, i Fassina chi, l’articolo due. Per carità, è obiettivamente difficile azzardare che il possibile arrivo di Starbucks in Italia possa essere, anche solo in parte, dovuto alle politiche del governo dell’ex sindaco di Firenze, o ai contenuti del jobs act. Però, in tutta sincerità, risulta più facile associare il Frappuccino alla Leopolda, che non a un vertice economico presieduto dai tecnici dell’era Monti. Il Paese, sull’onda dello storytelling della ripresa (che sia effettiva o no, quello è un altro paio di maniche), potrebbe cogliere questa occasione. E non solo per l’amore di Renzi verso gli Usa, o per le simili idee politiche del simpatizzante liberal Schultz.

Risulta più facile associare il Frappuccino alla Leopolda, che non a un vertice economico presieduto dai tecnici dell’era Monti. Il Paese, sull’onda dello storytelling della ripresa potrebbe cogliere questa occasione

I tempi sembrano quindi maturi, perché Starbucks e il suo fatturato da 16.447 miliardi di dollari (dato 2014) attraversino il confine italiano. E la notizia non ha lasciato certo indifferente il popolo tricolore, che immediatamente si è dedicato allo sport nazionale di litigare, armato di tastiera e monitor, indossando nuovamente i panni – mai passati di moda – dei guelfi e dei ghibellini, dividendosi tra favorevoli e contrari sui social network. Il classico scontro tra tifoserie, tra gli estimatori del Cinnamon Dolce Latte che aspettano da tempo, e i ritrovati difensori del suolo italiano, minacciato dall’invasore yankee.

Le critiche, anche feroci, contro il possibile arrivo della grande catena di caffetterie, non sono mancate, con buona pace del libero mercato. Il repertorio è come al solito ampio e variegato, e va dalla polemica no-global contro le multinazionali che uccidono le piccole realtà a quella neo-autarchica per la purezza del prodotto italiano (posizioni spesso affiancate, miracolo politico di Starbucks) passando per le varianti di chi sostiene che il caffè sia poco buono, o troppo caro, e molte altre ancora, il tutto condito, sovente, dall’immancabile avversità verso ogni cosa proveniente dagli Stati Uniti. In molti casi, si tratta di un revival di espressioni già sentite in precedenza per apostrofare McDonald’s, Burger King, KFC, Coca-Cola, e altri grandi marchi a stelle e strisce – ma, inspiegabilmente, raramente per Apple o Microsoft. Poco di nuovo sotto il sole: l’anti-americanismo, palese, mascherato, o inconsapevole, non è nato negli ultimi anni. «È stupido, ridicolo e antifascista andare in sollucchero per le danze ombellicali di una mulatta o accorrere come babbei ad ogni americanata che ci venga da Oltreoceano», scriveva il giornale mussoliniano “Il Popolo d’Italia” nel 1928, in riferimento al crescente successo della musica statunitense. Ma per Starbucks, la questione va necessariamente affrontata in maniera differente, e riportata sui binari.

In Italia non sono mancate le critiche, anche feroci, contro il possibile arrivo della grande catena di caffetterie, con buona pace del libero mercato

Perché il colosso in questione ha ben poco a che vedere con le succitate catene di fast food. Non vende hamburger – almeno, non ancora – e non è in alcun modo catalogabile come emblema della cultura del junk food. Vende caffè, e lo fa discretamente bene. Che può piacere o non piacere, ovviamente: i gusti personali non si discutono (e non bastano a proibire l’ingresso di un investitore in un Paese). Ma ben pochi, in tutto il mondo, possono puntare il dito verso la storia imprenditoriale di un’azienda che si distingue, a livello internazionale, per tutela dell’ambiente, trattamento dei dipendenti, rispetto della bio-diversità e, udite udite, qualità del prodotto, proveniente dalle migliori coltivazioni di Sud America, Africa e Asia. Promotore anche di una linea di prodotti “fair trade” (equo solidali), Starbucks si differenzia nel mercato globale poiché sempre sul pezzo su temi sociali e di attualità, con standard etici elevatissimi. Nulla a che vedere, insomma, con lo stereotipo dell’americano invasore e irrispettoso.

Ben pochi, in tutto il mondo, possono puntare il dito verso la storia imprenditoriale di un’azienda che si distingue, a livello internazionale, per tutela dell’ambiente, trattamento dei dipendenti, rispetto della bio-diversità e, udite udite, qualità del prodotto

E per chi non avesse avuto modo di leggere “Onward”, il best-seller scritto da Howard Schultz e Joanne Gordon, l’ironia della sorte è che tutto ebbe inizio proprio grazie all’Italia. Schultz, che come citazione iniziale del suo libro menziona Aldo Lorenzi, proprietario della Coltelleria G. Lorenzi di Via Montenapoleone, racconta nell’introduzione che l’idea di aprire una caffetteria nacque proprio durante una visita al nostro paese, a Milano e Verona in particolare: «Fui rapito dal potere che può avere assaporare una semplice tazza di caffè nel connettere le persone e creare uno spirito di comunità tra loro, e da quel momento in avanti fui determinato a portare caffè di eccellenza mondiale e il romanticismo dei bar dell’espresso italiani negli Stati Uniti». Da qui, l’idea di aprire una serie di caffetterie, che chiamò “Il Giornale”, tra Usa e Canada. Il resto, il boom commerciale, il successo in tutto il pianeta, la scena di “C’è posta per te” con Meg Ryan e Tom Hanks, il wi-fi gratis, il Frappuccino, è storia. E oggi, Schultz potrebbe decidere di fare il percorso inverso. Finalmente.

Un po’ grazie al mondo globalizzato, un po’ grazie ai racconti degli expat, un po’ perché ci piace usare il wi-fi mentre mangiamo un Oatmeal Cookie quando facciamo tappa nelle capitali estere, Starbucks ormai lo conosciamo tutti. È arrivato a pochi chilometri dalla frontiera, a Montecarlo e a Nizza, è presente su alcuni voli aerei, e in alcune città italiane ci sono persino sue imitazioni più o meno fedeli. Dunque, si può dire che l’Italia è pronta per Starbucks, e Starbucks è pronto a vivere e sopravvivere in Italia, senza arrecare particolari danni al mercato dell’espresso, o perire per mancanza di clienti. «Avrebbe la sua fetta di mercato che non toglierebbe nulla a un bar come il mio. Non saranno necessariamente pubblici diversi: magari la gente verrà a fare colazione da me e un giorno a settimana andrà da Starbucks», ha affermato all’agenzia Agi Francesco Massaro, titolare dello storico e omonimo caffè di Palermo. I due mondi non sono in contrapposizione, ma possono benissimo coesistere. E Starbucks deve arrivare, non per il caffè, ma per dare un segnale.

Per questo, mentre le news riportano di una possibile trattativa, a Mr. Schultz e a Mr. Percassi va rivolto un triplice invito: fate presto, fate sul serio e fate in grande stile. Fate presto, perché i tempi sono maturi, e l’Italia è rimasta fuori dai giochi (e non solo in questo settore) già abbastanza a lungo: dunque, faster please. Fate sul serio, perché le voci siano vere e perché la versione italiana di Starbucks sia davvero come gli Starbucks di tutto il mondo, senza compromessi, senza eliminare prodotti dal menù per il timore che non funzionino, senza offrire alla clientela una “experience” – perché è questo, ciò che davvero fa la differenza – minore, incompleta o diversa rispetto a quelle sperimentate e funzionanti nelle altre nazioni. Fate in grande stile, con una campagna d’Italia capillare e su ampia scala. Il che non significa aprire uno store nel paesino di montagna con duecento abitanti, certo.

Ma al tempo stesso, un nome di questo calibro non può permettersi né di aprire in sordina, né con pochi locali. Se deve arrivare Starbucks, deve arrivare in pompa magna. Un gesto coraggioso e audace, per una questione che, più che caffè e dolcetti, riguarda la libertà e la modernità: la libertà di impresa, la modernità del mondo globalizzato. Per l’importanza di investimenti, e la creazione di posti di lavoro. Per un po’ di sana concorrenza, che fa bene al mercato. Per dimostrare che i progetti imprenditoriali di successo possono funzionare dappertutto, Italia compresa. E per far capire a tutti che Starbucks, se decide di venire qui, viene qui per restare.

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