L’uso di aumenti automatici di entrate tributarie a garanzia della tenuta dei conti pubblici, più note come clausole di salvaguardia, ha fatto il suo esordio nel 2011, quando alla guida del Ministero dell’Economia e delle Finanze sedeva Giulio Tremonti. All’epoca, non furono particolarmente apprezzate dai mercati finanziari e dall’Unione Europea, in quanto furono percepite per quel che erano: il tentativo di allontanare l’ “amaro calice” dei tagli alla spesa pubblica con l’aumento della pressione fiscale.
I tempi cambiano, però: così, gli stessi mercati e “giudici” europei allora riluttanti, oggi paiono essere molto più aperti e disponibili ad accettare l’uso di questo strumento da parte dell’attuale Governo italiano. Che, a sua volta, ne fa un uso talmente fantasioso e spregiudicato da far impallidire i propri predecessori.
Andiamo con ordine, però, sperando non vi venga il mal di testa.
Lo scorso settembre, l’aggiornamento al Documento di economia e finanza (Def) è stato approvato dal Parlamento proprio grazie alla previsione dello scatto automatico delle clausole di salvaguardia della legge di stabilità 2015. In tale documento, la tabella dell’indebitamento netto tendenziale (a legislazione vigente) indicava come traguardo raggiungibile un rapporto deficit/pil pari all’1,4% nel 2016. Sempre secondo tale documento, il pareggio di bilancio sarebbe stato raggiunto nel 2017, proprio grazie a 26,2 miliardi di euro di clausole di salvaguardia. Curiosità: il quadro programmatico – un documento del governo che è una sorta di road map verso il raggiungimento di tale obiettivo – rimandava il pareggio di bilancio al 2019.
Passano poche settimane e in sede di Legge di Stabilità 2016, il Governo cancella senza battere ciglio ben 16,8 miliardi di euro di aumenti automatici di accise e Iva per il prossimo anno. La strategia è da campioni: far passare quella del 2016 come una manovra espansiva, tagliando gli aumenti automatici delle tasse decisi per far sì che la manovra dell’anno precedente fosse approvata.
Su un totale di 16,8 miliardi di euro di clausole di salvaguardia 2016, 3,3 miliardi erano stati inseriti dal Governo Letta in occasione della legge di stabilità 2014. I restanti, invece, sono farina del sacco di Renzi
Vale la pena di ricordarselo: su un totale di 16,8 miliardi di euro di clausole di salvaguardia 2016, 3,3 miliardi erano stati inseriti dal Governo Letta in occasione della legge di stabilità 2014. I restanti, invece, sono farina del sacco di Renzi. Nella legge di stabilità 2015, infatti, era stata prevista una clausola pari a 0,7 miliardi di euro a garanzia di una possibile bocciatura (puntualmente arrivata) da parte dell’Europa dell’introduzione del sistema del reverse charge e aumenti di Iva (dal 10 al 12% e dal 22 al 24%) con un’entrata stimata di 12,8 miliardi di euro. Il totale? 13,5 miliardi di euro. Facendo due conti,più della metà della tanto sbandierata diminuzione della pressione fiscale da 24 miliardi.
Finisse qui, peraltro, non ci sarebbe nemmeno troppo da preoccuparsi. Il problema è che qui non finisce. Le clausole di salvaguardia, infatti, fanno bella mostra di sé sia nelle tabelle del 2017 (15,133 miliardi di euro) sia in quelle del 2018 (19.571 miliardi di euro), con lo scenario drammatico che si debba essere costretti ad attivarle per forza per far fronte a una possibile ripartenza dei tassi d’interesse e quindi del costo del debito pubblico.
Non solo: la Legge di Stabilità 2016 produce deficit aggiuntivo pari a 14.581 milioni di euro, che, al di là dell’autorizzazione dell’Europa, dovrà essere pagato, ovviamente, con nuovo debito pubblico. Che invece di diminuire, quindi, continua a crescere. Tranquilli, però: ci saranno sempre delle clausole di salvaguardia pronte a scattare, per evitare problemi al Governo. Finché ce lo faranno fare, ovviamente. Poi ce le faranno pagare tutte.
*Senatore della Repubblica, Partito Democratico