Cominciamo dalla fine, o quella che potrebbe essere la fine: Andrea Agnelli è entrato nel mirino di John Elkann ed entro breve, diciamo a fine stagione, dovrebbe lasciare il posto a un altro Elkann, Lapo. Almeno, la voce che gira è questa. Pare che John non abbia gradito le ultime uscite extra calcistiche di Andrea. Una vicenda ricostruita tempo fa dal Fatto Quotidiano, che a chiare lettere ha sbattuto la questione rosa (che non c’entra con la seconda maglia della Juve) in prima pagina: «Radio-portineria parla di Andrea e Deniz colti in atteggiamenti inequivocabili durante una festa di matrimonio nel maggio scorso. Con esplosione dello scandalo ed esiti subito dirompenti», ha scritto il FQ.
Deniz sarebbe la moglie di Francesco Calvo, ex direttore commerciale del club, che nonostante i successi – l’ultimo è il migliore contratto ottenuto con Adidas ai danni di Nike per le maglie bianconere – ha lasciato Torino per Barcellona. Non certo per il clima atmosferico, ma quello amoroso diciamo. E nel frattempo Emma Winter, che sarebbe la moglie di Andrea Agnelli, ha preso figli e valigie e se n’è andata a Londra, non gradendo affatto. Così come non gradisce John Elkann, che teme per le casse di famiglia: la Winter, cercando la separazione, costringerebbe la potente dinastia torinese a firmare assegni corposi.
Insomma, si dovrebbe arrivare a questa fine. E cosa resterà, in caso, dopo Andrea Agnelli? Resterà un’eccezione. Sembra strano a dirlo, ma la Juventus è un’eccezione del calcio italiano. Strano perché nella parte bianconera di Torino vige il motto che vincere è l’unica cosa che conta. Ma nel pallone italiano di oggi, dove si naviga a vista in un mare di bilanci in rosso e poche innovazioni, allora possiamo dirlo: la Juventus è un’eccezione.
Nel pallone italiano di oggi, dove si naviga a vista in un mare di bilanci in rosso e poche innovazioni, possiamo dirlo: la Juventus è un’eccezione.
Lo sei se chiudi il bilancio in utile, ad esempio. Già è difficile per un’impresa italiana, figuriamoci per una che fa calcio, in un’industria che per decenni il nostro sistema ha considerato “a perdere” mentre nel mondo diventava un affare globale. Il ritornello lo conosciamo: mentre all’estero si sono organizzati (stadi di proprietà, marketing, etc…) noi siamo rimasti ancorati ancora un po’ al vecchio modello del potere in mano a pochi, uomini soli o famiglie storiche. In questo senso, la Juventus è un’eccezione anche perché è riuscita, pur restando di proprietà di una dinastia, a cambiare verso. No, non c’entra Renzi. C’entra un modello di business che ha strizzato l’occhio all’estero, modulandolo sulla realtà bianconera. E arrivando per la prima volta all’utile dopo anni.
Come è stato possibile? Se l’utile, detto in maniera semplice, è dato da un corretto equilibrio tra ricavi e costi, bisogna dare un occhio al fatturato. Nell’ultima stagione, chiusa con il “quasi Triplete”, il club ha potuto registrare un fatturato di 348,2 milioni di euro. Un record assoluto, per il club e per qualsiasi società italiana di Serie A. I risultati sportivi hanno contribuito senza dubbio a gonfiare il fatturato, fino al risultato dell’utile di 2,3 milioni: un miglioramento netto, rispetto alla perdita di 6,7 milioni del 2014. Ma i bonus Uefa per la Champions, comprensivi di market pool e botteghini, si innestano su un terreno lavorato per bene negli ultimi anni.
Se si guarda nel dettaglio la “torta” dei ricavi, si può notare come due voci su tre della cosiddetta “gestione caratteristica” siano aumentate rispetto allo scorso anno: una è quella dei diritti tv, passata da 151 a 194 milioni di euro, l’altra è quella del matchday (stadio), passata da 41 a 51,8 milioni di euro. Da qui passano le prime, interessanti considerazioni. Una su tutte: lo stadio. Per anni, il club bianconero ha giocato in un impianto scomodo e freddo come il Delle Alpi. Certo si potevano fare i tutto esaurito, come avvenne nella semifinale contro il Real Madrid di Champions nel 2003. Ma erano casi rari: spesso lo stadio si faticava a riempirlo, tanto che si era parlato di giocare le gare notturne di coppa altrove. Ora, a nessuno verrebbe in mente una simile soluzione. Lo Juventus Stadium è cresciuto negli anni, seguendo un trend fisiologico: stadio nuovo, entusiasmo, ricavi che si alzano. Si è passati così dagli 11 milioni dell’ultimo anno prima del nuovo stadio ai 31,8 del 2012, prima stagione nell’attuale casa. Quindi 38 milioni nel 2013 e 41 nel 2014. Se non ci fosse stata la cavalcata trionfale fino alla finale di Champions a Berlino i ricavi sarebbero stati più vicini a quel 41, ma un conto è fare il tutto esaurito in una singola gara per via di uno stadio vetusto e scomodo, un altro in tre consecutive tra ottavi, quarti e semifinale, come avvenuto nell’ultimo torneo, in uno più comodo e funzionale.
E più vai avanti, più incassi soldi dalla Champions, sotto forma di bonus e market pool: se lo scorso anno i proventi da competizioni Uefa erano ammontati a 50 milioni di euro, nell’ultima stagione i ricavi sono arrivati a 88,6 milioni di euro, per effetto del raggiungimento della finale. Dunque tali ricavi non sono uguali tutti gli anni, perché dipendono dai risultati. Ecco perché salta di più all’occhio quello dello stadio: questo ti assicura comunque una base di introiti annua al di là delle vittorie, così come accade in Europa, se il club è bravo a fidelizzare il tifoso. E la Juventus lo sta facendo: campagne sui social, rafforzamento del marketing digitale e un nuovo contratto con Adidas, portato da quel Calvo di cui sopra. E che assicurerà al club 23 milioni a stagione più la gestione diretta del merchandising. Significa che la Juve rinuncia a un compenso fisso in cambio degli introiti da licensing, aspetto che la società può implementare come meglio crede, puntando sulla brandizzazione dei prodotti marchiati di bianconero. Un modo per rialzare il volume dei ricavi commerciali, facendo allo stesso tempo del marchio Juve un simbolo globale: il gap con le altre grandi d’Europa, in questo senso, è ancora ampio. Un esempio su tutti: il Manchester United prende 60 milioni l’anno da Chevrolet, contro i 17 di Jeep per le maglie della Juve.
Ecco allora la nuova sfida del club, dopo l’utile: mantenerlo con un progetto di ricavi stabili a lungo termine, in grado di assorbire buona parte dei costi, che nel 2015 sono arrivati a 263 milioni di euro. Il tutto slegandosi da quei ricavi legati troppo ai risultati, come quelli dei diritti tv. Oltre alla parte commerciale, il club punta forte su quello immobiliare. Dopo lo Stadium, è andato in porto il progetto della Continassa, nato dall’esigenza di riqualificare l’area attorno al nuovo impianto e assicurare alla società nuovi ricavi. Per questo, nei mesi scorsi è stato creato un fondo immobiliare ad hoc, il J Village, gestito da Accademia Sgr che ha avuto come compito quello di reperire i capitali per l’operazione, mentre la Juve ha speso 11 milioni subito per acquisire i diritti di superficie. Qui nasceranno la nuova sede del club, oltre che un hotel e un ristorante marchiati dalla lettera “J”: un modo strategicamente pianificato di far circolare il brand, diversificando i ricavi.
L’operazione, per chiudere il cerchio, si ricollega anche al probabile cambio a livello dirigenziale deciso da John Elkann. Se Andrea Agnelli dovesse andare via, ricollocato magari in qualche altro ramo aziendale per così dire, il club dovrà attutire il colpo. E non c’è niente di meglio di una strategia economico finanziaria a lungo raggio.