Gli stati nazionali novecenteschi, in Europa come in Nord Africa e Medio Oriente, segnano il passo, lacerati da spinte indipendentiste o da conflitti a bassa intensità. Ma la crisi dello stato nazionale è irreversibile o no? E quali sono le implicazioni e gli effetti collaterali di queste tensioni? Ne abbiamo parlato con Alessandro Campi, docente di Storia delle dottrine politiche all’Università di Perugia, editorialista de Il Messaggero e Il Mattino, nonché direttore del periodico Rivista di Politica.
Aumenta la distanza tra popoli e Europa, cresce l’autonomismo, tanto in Scozia, quanto recentemente in Catalogna. Come si spiega la debolezza strutturale degli stati nazionali?
La crisi degli Stati nazionali dura da circa un secolo. Già negli anni Venti e Trenta del Novecento si sosteneva che lo Stato come modello istituzionale avesse esaurito il suo ciclo vitale e che il suo posto sarebbe stato preso dalle grandi aggregazioni “imperiali” (come quelle perseguite su differenti basi ideologiche, dal comunismo sovietico, dal nazionalsocialismo e dallo stesso fascismo italiano). Finita la seconda guerra mondiale, il progetto di unità europea è stato solo un modo differente, su base democratica e consensuale, per superare nuovamente gli Stati sovrani. Che però sono ancora al loro posto.
Lo stato nazionale ha la forza per tornare centrale e svolgere un ruolo politico di cerniera nei nuovi scenari?
Sono convinto che lo Stato sia ben lungi dallo scomparire. Non foss’altro per l’horror vacui che si apre alla sola idea della sua fine. Oltre lo Stato come soggetto politico sovrano, nel mondo attuale, c’è solo il dominio delle tecnocrazie senza patria e, dal punto di vista sociale, lo spettro di uno stato di guerra civile strisciante.
Per aderire alle organizzazioni internazionali, dall’Unione Europea all’Organizzazione mondiale del commercio, gli Stati nazionali hanno ceduto sovranità politica ed economica a tecnocrazie non elette dai popoli. Benzina della propaganda neo-nazionalista del populismo europeo…
C’è un deficit di democrazia che spiega il grande successo che stanno ottenendo i partiti e movimenti populisti. Le democrazie contemporanee stanno evolvendo in senso sempre più oligarchico. Al tempo stesso c’è da fare i conti con una deriva dei nostri sistemi politici in senso tecno-amministrativo.
Il problema dei movimenti autonomistici è che tendono a riprodurre il male che dicono di voler combattere. Avversano lo Stato, come una forma centralistica e oppressiva, ma tendono fatalmente a crearne uno nuovo che in piccolo ne riproduce le logiche di funzionamento
A cosa si riferisce?
Entrate in crisi le ideologie e le culture politiche storiche, il mito del governo tecnico o “dei sapienti” (peraltro vecchio nella storia del mondo) ha ripreso vigore. Da questo punto di vista l’Italia – con la sequela di governi tecnico-burocratici che l’hanno retto dopo la caduta dell’esecutivo Berlusconi nel 2011 – è un interessante caso di scuola di ciò che stanno diventando i regimi rappresentativi contemporanei: strutture sempre più verticistiche ed autoreferenziali e sempre meno aperte alla partecipazione popolare.La situazione in Catalogna mostra che anche le ansie indipendentiste devono fare i conti con costituzioni e divisioni interne nei fronti autonomisti. Ci sarà un arretramento elettorale di queste formazioni?
Il problema dei movimenti autonomisti – o, per meglio dire, separatisti – è che tendono a riprodurre il male che dicono di voler combattere. Avversano lo Stato, come una forma centralistica e oppressiva, e tendono fatalmente a crearne uno nuovo, anche se territorialmente più piccolo, che però ne riproduce le logiche di funzionamento. Per di più pensano di poterlo fare su una base di omogeneità linguistico-culturale che è in effetti in contrasto con la dinamica del mondo contemporaneo.Un governo dell’Unione Europea meno distante dai popoli, con vertici eletti direttamente dai cittadini e con una politica economica più attenta a sociale e lavoro: è questa la strada per una organizzazione sovranazionale che ritorni autorevole?
Chissà, forse tra cent’anni dell’Unione europea diremo che è stato il più grande (e forse più fallimentare) esperimento di ingegneria sociale e politica dai tempi del socialismo reale. In effetti, c’è qualcosa di titanico (e forse anche di diabolico) in quest’idea di voler creare, sulle ceneri degli Stati nazionali europei, qualcosa di mai visto nella storia. Ma nell’ipotesi che l’unità europea rappresenti, come in fondo credo, un ideale meritevole di essere coltivato (anche se deprivandolo dei suoi tratti utopici), bisogna allora imboccare una strada diversa da quella sinora percorsa.
Chissà, forse tra cent’anni dell’Unione europea diremo che è stato il più grande (e forse più fallimentare) esperimento di ingegneria sociale e politica dai tempi del socialismo reale…
Da dove bisognerebbe partire?
Per cominciare non si può pensare di costruire l’Europa contro gli Stati nazione che la compongono. Dal punto di vista storico, l’Europa è le sue nazioni, coincide con gli Stati (la Francia, l’Italia, la Spagna, la Germania, ecc) che ne sono parte integrante e costitutiva dal punto di vista materiale e simbolico. L’unità europea non può dunque che costruirsi che a partire dalle sue differenze appunto nazionali. Chi pensa di superare queste ultime, ha in testa forse un superstato governato da chissà quale nomenclatura, ma certo non un qualcosa che possa definirsi “Unione europea”. C’è poi, come da lei suggerito, da superare quel deficit democratico e di partecipazione cui abbiamo già accennato. I cittadini europei, al di là della retorica ufficiale e istituzionale, non sentono l’Europa come loro patria politica comune. E i dati sull’astensionismo durante le elezioni europee (come pure la crescita dei partiti euroscettici) sta lì a dimostrarlo.
Poi c’è la crisi economica, a cui l’Ue dovrebbe offrire risposte immediate.
La vera cartina al tornasole del futuro dell’Europa sarà la sua capacità di rilanciare l’economia e il benessere dei cittadini. Dal punto di vista storico, la legittimità del progetto di unificazione europeo si è basato su due promesse: quella della pace dopo le rovine della Seconda guerra mondiale; e quella del benessere collettivo e diffuso dopo le privazioni dovute a quella guerra. Un’Europa che non sappia più garantire la pace interna (mostrandosi ad esempio arrendevole nel contrasto al terrorismo) e il benessere tipico del Welfare State (perseguendo nelle politiche di rigore finanziario che l’hanno sin qui contraddistinta) rischia di scavare un soldo incolmabile tra sé e i propri cittadini. E di trasformarsi da nobile ideale in minaccia.
C’è un intellettuale ancora attuale che ha raccontato la crisi dello stato nazione e che vale la pena leggere?
Anthony D. Smith, uno dei più grandi studiosi contemporanei del nazionalismo. E’ il fautore del cosiddetto indirizzo etno-simbolista nello studio delle nazioni. A quelli che hanno considerato queste ultime come delle costruzioni artificiali tipiche della modernità industriale (penso ad esempio alle tesi di Hobsbawm sull’invenzione della tradizione), Sith ha spiegato che le nazioni come unità culturali senza le quali gli Stati contemporanei nemmeno esisterebbero sono invece costruzioni storiche lente e antiche. Le identità etno-nazionali (senza che il termine etnico rimandi a qualcosa di biologico o razziale) sono il frutto di una lunga sedimentazione che chiama in causa miti, credenze collettive, legami sentimentali e politici condivisi. C’è insomma una profondità storica delle nazioni che le rende, secondo Smith, qualcosa di difficilmente cancellabile o superabile. E senza le nazioni così intese, aggiunge Smith, non si può pensare di costruire istituzioni politiche (appunto uno Stato) che siano durature e soprattutto considerate legittime agli occhi di chi è chiamato a vivere sotto di esse. Se lo stato oggi è in crisi forse dipende dal fatto che non si ha più chiaro come esso si sia formato nella storia e quali siano le sue reali regole di funzionamento.