Trento come Taranto. O quasi. Perché la storia delle acciaierie Borgo Valsugana, il polo siderurgico che dal 1979 offre lavoro a intermittenza a più di cento famiglie – duecento e passa durante l’età dell’oro – di questa stretta vallata trentina, ha più di qualche assonanza con le sfortune pugliesi.
Quattordici procedimenti giudiziari a carico di direttori dello stabilimento, amministratori e rappresentanti legali in meno di otto anni, dal 2008 a oggi. Tre sostituti procuratori tridentini impegnati che “non escludono la presenza di altri fascicoli di cui non si è a conoscenza”. Rassicurazioni da parte degli enti provinciali, dall’ex Presidente dell’Autonomia, Dellai – oggi al Senato con la lista Monti, o quel che ne rimane – fino all’Appa, l’Agenzia provinciale per la protezione dell’ambiente. Che aveva autorizzato un limite alle emissioni di diossine di 1000 volte superiore agli 0,5 nanogrammi per metro cubo previsti dal decreto ministeriale: per un errore nella scelta dell’unità di misura e delle tabelle di riferimento, anche se il funzionario trentino incaricato, Giancarlo Anderle, ha sempre sostenuto, durante incontri con la popolazione, che non sono importanti i limiti ma le tipologie d’impianto. Sempre l’Appa, a settembre 2015, ha messo in rete una relazione di trenta pagine che sembra un romanzo rosa: 22 campioni raccolti in un anno a 600 e 1200 metri dall’acciaieria, dove valori sono in linea con le aree rurali europee. I paragoni vengono fatti, tra l’altro, con la legislazione vigente nella regione delle Fiandre, Belgio, perché in Italia non esistono limiti alle deposizioni atmosferiche di micro inquinanti organoclorurati e nemmeno per i metalli.
Trento come Taranto: in otto anni le acciaierie Borgo Valsugana sono state coinvolte in almeno 14 procedimenti giudiziari. La legge provinciale permetteva emissioni di diossine fino a mille volte superiori a quelle previste dal decreto ministeriale. Per via di un errore nell’unità di misura
L’Appa rassicura parandosi le terga con una frase conclusiva: “Le valutazioni hanno valenza ambientale. Si rimanda alla competenza sanitaria la formulazione di specifiche riguardanti aspetti tossicologici ed epidemiologici”. «Sono otto anni che ripetono gli stessi ritornelli», accusa il medico chirurgo Roberto Cappelletti, che ha pubblicato uno studio sulla mortalità e l’incidenza tumorale e di malattie cardiovascolari fra i metalmeccanici di Borgo Valsugana sul Journal of Occupational Medicine and Toxicology, «nelle prime indagini hanno fatto le analisi sui pesci d’allevamento». Altre volte la fauna selvatica veniva sì dalla roggia che accoglie le acque reflue dell’acciaieria – e che confluisce nel Brenta, il secondo fiume trentino dopo l’Adige – però pescati a monte e non a valle, nei punti non interessati da attività potenzialmente inquinanti. Oppure si campionavano le acque alla ricerca di diossine quando è noto che queste si concentrano nei grassi.
«Hanno fatto analisi sui pesci di allevamento, invece che su quelli della roggia inquinata»
Del resto le inchieste hanno chiarito il ruolo di controllori e controllati, con le ispezioni che venivano annunciate in anticipo, in modo tale da sostituire nel forno lo sporco materiale ferroso utilizzato di solito, con ghisa di alta qualità. A qual punto dai due camini usciva aria di montagna. Per qualche ora. Quattro funzionari dell’Appa sono anche finiti nel registro degli indagati.
La prassi di falsificare i dati era consolidata da anni. Le intercettazioni, dal sapore dialettale, presentate dalla pm Alessandra Liverani in fase di rinvio a giudizio sono chiare: l’acciaieria cercava di ottenere l’AIA, Autorizzazione Integrata Ambientale, e si sottoponeva alle analisi di un laboratorio esterno di nome Chemiricerche. Analisi che poi avrebbe inviato all’Appa a testimonianza della propria buona condotta. Non prima di aver modificato qualche numero. Ed è così che fra una mail e l’altra, un allegato e un altro, la durata di un prelievo passa magicamente da 301 minuti a 365 minuti, aumentano i litri di aria aspirata e di conseguenza diminuiscono le concentrazioni di agenti nocivi. O, ancora più rozzamente, le conclusioni di una relazione passano da “L’emissione E1 rispetta i limiti; L’emissione E2 non rispetta i limiti” a “Le emissioni E1 ed E2 rispettano i limiti prescritti”. Per non parlare delle soluzioni “artigiane” quando i numeri proprio non volevano essere giusti: una mattina l’ingegnere Bortolotti avvisa il direttore Spandre che “le analisi sono state un disastro, c’era un chilo di polveri sul filtro” nonostante avessero appena cambiato i filtri a manica che trattengono le polveri. E il direttore ha la soluzione: pulire il filtro a mano, con l’aria compressa e riposizionarlo. Nelle carte dei magistrati di episodi del genere ce ne sono a dozzine.
Le conclusioni di una relazione passavano da “L’emissione E1 rispetta i limiti prescritti; L’emissione E2 non rispetta i limiti prescritti” a “Le emissione E1 e E2 rispettano i limiti prescritti”
Eppure, mai come in questo caso, vale il detto “cercavi giustizia ma trovasti la legge”. Fra i fatti contestati una serie di incendi ed esplosioni avvenuti in tarda serata, o di notte, nei pressi dei box scorie dell’acciaieria. Perché? Perché le scorie incandescenti e semiliquide entravano a contatto con l’acqua piovana – le precipitazioni in Trentino non sono esattamente una rarità – provocando reazioni fisiche di scissione e l’esplosione dell’idrogeno. Questi incendi, filmati dalle telecamere dei residenti, hanno provocato anche l’esplosione di oggetti ferrosi dal peso fino a due etti, con una gittata fino a cento metri di distanza, come dimostrato da numerose foto scattate dal Corpo Forestale nei giorni successivi. Oltre alle fumate tossiche. Il codice penale prevede la contestazione in questi casi del “getto pericoloso di cose” – per intendersi, una lattina di coca-cola vuota lanciata da un bambino di un’auto in corsa. Reato che ovviamente si estingue per oblazione: una piccola contravvenzione da qualche centinaia di euro ai vertici aziendali e tutti a casa.
Le esplosioni e gli incendi con oggetti del peso di due etti scagliati a cento metri di distanza vengono derubricati a “getto pericoloso di cose”: come se un bambino lanciasse una lattina da un’auto in corsa. È il codice penale, bellezza
Trento come Taranto, si diceva all’inizio. E non solo per l’acciaio, le diossine e i tumori. Perché anche il nuovo assetto societario presenta similitudini con la parabola dalla famiglia Riva. La New.Co che gestisce l’acciaieria si chiama Leali Steel – che prende il nome dall’imprenditore bresciano Dario Leali, ex amministratore unico coinvolto nei numerosi processi – è stata acquisita dal Gruppo Klesch, svizzero ma guidato da un magnate americano. Mettendo la parola fine ai traballanti ultimi anni di vita dello stabilimento, fra sequestri della magistratura (pur senza interrompere l’attività lavorativa), messa in liquidazione e concordati preventivi.
Scrive il 25 marzo di quest’anno il portale specialistico Siderweb che “sarà una pasqua più serena per i lavoratori trentini dell’azienda”. La Pasqua sicuramente ma per il futuro meglio non essere ottimisti: dal punto di vista ambientale perché già oggi l’acciaieria lavora in deroga grazie all’ennesimo favore della Provincia Autonoma di Trento. Ma anche perché l’assetto societario di Leali Steel e Gruppo Klesch è tutt’altro che trasparente: strane triangolazioni e giochi di scatole cinesi, che dal cuore del produttivo nordest conducono in vari paradisi fiscali, come Lussemburgo, Malta o l’Isola di Jersey nel canale della Manica. Questo emerge dalle visure camerali e dai registri delle imprese anche esteri.
La New.Co ha un assetto societario tutt’altro che trasparente, con un gioco di scatole cinesi che dalla stretta vallata trentina si dirama fino a Malta o l’Isola di Jersey
E dire che tutto è nato da una coda notturna di camion fuori dal cosiddetto “Discaricone” di Roncegno Valsugana, a pochi passi dall’impianto siderurgico. Era l’indagine “Ecoterra” che si avvalse dalla zelanteria di un funzionario del Corpo Forestale dello Stato, che segnalò i primi illeciti dando vita al filone d’inchiesta sulla acciaieria ridenominato “Fumo negli occhi”: Nicola Pierotti, comandante della stazione di Enego, piccolo Comune in provincia di Vicenza. Già, Vicenza non Trento. Perché anche a queste latitudini i panni sporchi è meglio lavarli fuori dalla famiglia. Un po’ come a Taranto.