Confessiamolo, quando si parla di disoccupazione giovanile, di giovani che non trovano lavoro e sono poi costretti alla precarietà, a essere pagati in voucher, o con mesi di ritardo come (finta) partita IVA, pensiamo a qualche 25enne appena uscito dall’università, e così si discute della facoltà migliore, di quella “scienza delle merendine” che non porta da nessuna parte, e così via. Ma non stiamo inquadrando il problema.
In Italia i giovani con una laurea sono una minoranza. E’ vero, quasi il 60% dei 20-24enni è iscritto a una facoltà, ma allo stesso tempo, come ci dice Eurostat, tra i 30-34enni i laureati sono solo il 25%, e questo nonostante 10 anni fa gli iscritti all’università fossero più di oggi. Quel 42% di rapporto tra iscritti e laureati è la percentuale più bassa in Europa.
Questo vuol dire che quando pensiamo ai più giovani dovremmo riferirci soprattutto ai tantissimi diplomati e anche a qualcuno che un diploma non l’ha mai raggiunto. Tra i 20 e i 29 anni sempre per Eurostat solo il 16,4% ha una laurea in Italia
E’ il Paese con meno laureati in questa fascia d’età, ma inaspettatamente c’è un paese con una percentuale ancora minore, la Germania.
Si può rimanere sorpresi se non si conosce la lunghissima tradizione, più che secolare, di alternanza scuola lavoro, di corsi professionali avanzati in collaborazione con le aziende, di apprendistato che rendono la Germania unica in questo campo, e inimitabile da noi.
Questo si capisce chiaramente se si osserva il tasso di occupazione di questi giovani diplomati, Eurostat ci dice che la differenza con la Germania e gli altri Paesi pare insormontabile: nel Paese di Angela Merkel una quota di giovani con diploma quasi doppia rispetto alla nostra risulta occupata, il 72,3% contro il 39,6%.
E’ allora composta di diplomati e ragazzi con la terza media l’enorme quantità di disoccupati e inattivi sotto i 30-35 anni. Un numero lievitato con la crisi, e più di quanto sia accaduto per i laureati.
Se il tasso di occupazione dei giovani laureati tra il 2006 e il 2014 è calato dell’11% nel nostro Paese, per i diplomati è sceso del 13,3% e per chi non aveva neanche un diploma del 18,4%
Tra le performances peggiori d’Europa, almeno considerando i Paesi più grossi. Solo la Spagna ha visto crolli peggiori dei nostri.
In Germania e Polonia l’occupazione dei diplomati è addirittura salita più di quella dei laureati. Non a caso sono i due Paesi che la crisi non l’hanno sofferta, e due degli Stati con maggiore incidenza del settore manifatturiero sull’economia, dove la produzione di beni e non solo l’erogazione di sevizi ha resistito, si è adattata e ha anzi approfittato della globalizzazione.
L’Italia viveva finora una situazione piuttosto atipica in Europa, era tra i Paesi con la minore differenza di occupazione tra laureati e non laureati. Il luogo comune per cui non conviene laurearsi perchè tanto “l’elettricista e l’idraulico si fanno la villa mentre il laureato in economia prende 1000 al mese” era ingiustificato, ma nel nostro Paese era meno lontano dalla realtà che altrove.
Si trattava di un sintomo dell’arretratezza del nostro tessuto economico, fatto di piccole e micro imprese con poca domanda di personale specializzato o di posizioni manageriali, di un ampio numero di laureati inattivi soprattutto al Sud, della permanenza al lavoro, cause riforme delle pensioni, di milioni di non laureati ultra 55enni. Con la crisi economica in un certo senso l’Italia si è avvicinata allo standard europeo, come e più di quanto già avviene altrove le nostre aree più disagiate, il Sud, le periferie, si stanno riempiendo di persone che non hanno studiato e non hanno un lavoro, per quanto umile.
Considerando la silente ma costante tendenza a ripercorrere le scelte dei genitori, per cui è molto più probabile per un figlio di un non laureato rinunciare a iscriversi o a finire l’università, questo vuol dire una società sempre più diseguale, e fragile.
Abbiamo pochi primati in Italia, tra questi però vi era una certa coesione sociale, un apparente minore visibilità della divisione in classi, l’assenza di ghetti e banlieux paragonabili a quelle di altre metropoli estere. Questi trend negativi rischiano di farci avvicinare a modelli ed esempi di instabilità sociale da cui vorremmo tenerci lontani.