Chiamateli nerd se volete, ma fanno i milioni coi videogiochi

Il successo dei tornei internazionali di Dota 2 e League of legends trainano la volata degli esport verso il professionismo. E in Italia i gamer si allenano all'ombra del Coni

Ci vogliono circa cinquant’anni perché un “gioco” diventi uno “sport” e si organizzi per vestire i panni del professionismo. Per fare un esempio, la prima partita di calcio fu giocata nel 1860 in Inghilterra e la Fifa fu fondata nel 1904. Stessa cosa per gli sport “americani”: il primo match di football si disputò nel 1869 e nel 1920 fu creata la Nfl, mentre l’invenzione del basket da parte del professore di educazione fisica James Naismith risale al 1891 e la nascita della Nba è datata 1946. Una costante che viene meno quando il gioco si chiama (video)gaming. Nel 1980, anno del torneo organizzato da Atari negli Stati Uniti, diecimila persone si sfidarono a Space Invaders davanti alle classiche cabine da sala giochi. Diciassette anni dopo, a Colonia (Germania), un gruppo di appassionati diede vita alla Electronic Sport League (Esl), gettando le basi per il settore professionistico degli anni Duemila: gli esport.

Certo, nessuno degli oltre sei milioni di giocatori registrati nel database dell’Esl si avvicina ancora ai paperoni degli sport professionistici. Nel 2015, lo sportivo più pagato al mondo è stato Floyd Mayweather: 85 milioni di euro per tirare pugni sul ring e vantarsi dei propri guadagni sui social network. A seguire, nella classifica stilata ogni anno da Forbes, ci sono Cristiano Ronaldo (65 milioni) e Le Bron “The Chosen One” James (60 milioni). In tutti e tre i casi corpi atletici, muscoli tonici e abilità psicomotorie al servizio dello showbusiness hanno permesso di arrivare al top della propria disciplina e diventare le facce giuste per il merchandising. Niente a che fare con gli occhiali spessi, le spalle curve e la pelle chiara del tipico nerd in fissa con i videogiochi. Eppure, in barba al pregiudizio, connessi alla rete, controller in mano e nel buio della propria camera hanno dato vita a uno sport che oggi vale 325 milioni di dollari. La stella? Il ventisettenne americano Saahil “UNiVeRsE” Arora che nel 2015 si è portato a casa quasi due milioni di dollari in montepremi.

In barba al pregiudizio, connessi alla rete, controller in mano e nel buio della propria camera i nerd hanno dato vita a uno sport che oggi vale 325 milioni di dollari

A testimoniare la crescita d’interesse per gli esport (che si sono meritati pure un documentario dal titolo Free to play) ci ha pensato un recente studio secondo cui il pubblico di appassionati di videogiochi sia composto ormai da 226 milioni di persone. Ma chi sono? Il profilo del “consumatore tipo” è presto fatto: maschio o femmina non c’è differenza (anche se il 22% delle donne intervistate è direttamente coinvolto negli esport contro il 18% degli uomini), 28 anni di media e possessori di diversi device elettronici. Insomma, non una cosa da bambini (il 69% degli intervistati ha un’età compresa fra i 18 e i 34 anni).

Inoltre, grazie alle possibilità offerta dallo streaming online e ai recenti successi di titoli come League of Legends (abbreviato in Lol dagli appasionati) e Dota 2 la volata verso il professionismo è sempre più a portata di mano. D’altronde, già allo Staples Center di Los Angeles, nel 2013, oltre diecimila persone hanno seguito in diretta le finali di Lol. E un anno dopo i vincitori del torneo di Dota 2, il gruppo cinese NewBee, hanno incassato cinque milioni di dollari. Quanto basta per vivere di videogiochi, comprarsene altrettanti per non perdere il tocco magico e farsi chiamare professionisti del joystick.

Vivere di soli montepremi, tuttavia, potrebbe risultare frustrante come dimostrano le denunce di doping (bevande energetiche e Adderall, un mix di anfetamine) il caso del sudcoreano Lee “Flash” Young-ho che a soli 23 anni (complice anche il regime di servizio militare obbligatorio vigente nel suo Paese) ha deciso di ritirarsi dopo aver debuttato a 14 anni. I soldi per lui non sono un problema, ma il desiderio di una “vita tranquilla” (magari come allenatore) lo ha portato ad appendere mouse e tastiera al chiodo. D’altra parte, i modi di fare soldi non mancano.

Nel 2014 i vincitori del torneo internazionale di Dota 2, il gruppo cinese NewBee, hanno incassato cinque milioni di dollari

Creata nel 2011, la piattaforma Twitch rappresenta il vero e proprio luogo di lavoro dei videogiocatori e un acceleratore per l’intero settore. Gli utenti caricano le proprie sessioni di gaming oppure partecipano a delle trsmissioni d’approfondimento su singoli titoli. E grazie a sponsorizzazioni, donazioni degli spettatori e un contratto stile Youtuber, i gamer su Twitch possono contare su un introito fisso che arriva a toccare, quando va bene, i centomila dollari lordi l’anno.

In Italia, gli esport sono stati ufficialmente riconosciuti dal Coni nel 2014 che ha dato vita all’associazione Gec (Giochi elettronici competitivi). Ad oggi sono una trentina gli affiliati in un Paese che conta circa 23 milioni di videogiocatori e un mercato che vale 1,5 miliardi di dollari (il decimo più grande a livello globale). «Stiamo lavorando per arrivare al professionismo – afferma Marco Cresta, Ceo di Powned società affiliata Gec – Non ci sono veri e propri ostacoli, dobbiamo solo aspettare che il mercato e la cultura “sportiva” si evolva naturalmente». L’associazione dilettantistica Pawned conta attualmente quattro squadre e due giocatori che hanno raggiunto un livello internazionale con un ritmo di due-tre ore di allenamento al giorno. «Nonostante i buoni risultati, quello che manca ai nostri ragazzi è prendere coscienza del loro status di videogiocatori» rivela Cresta. Al di là dell’etichetta di nerd. «Certo ci sono ancora alcuni pregiudizi sulla nostra disciplina. Ma sono convinto che il gaming, se interpretato in modo salutare, può essere uno sport inclusivo». Un esempio? «Non ci sono categorie differente per normodotati e disabili».

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