Contrapporre musica classica a pop e jazz? Ma dai, nel 21esimo secolo!

A 26 anni è nella lista dei 10 migliori musicisti d'Italia per uno strumento particolarissimo, il vibrafono. Cristiano Pomante è convinto che ormai la musica non abbia più confini: «I giovani compositori sono cresciuti con il jazz, il rock e il pop nelle orecchie»

Nel suo nuovo libro «Beethoven e la ragazza coi capelli blu» (Mondadori 2016) l’autore, il direttore d’orchestra e pianista Matthieu Mantanus, mette al centro della storia una giovane musicista che suona ad alto livello sia il basso elettrico in una rock band sia il contrabbasso in un’orchestra sinfonica. Musicisti “di confine”, ma non così rari come si potrebbe pensare. Con la rubrica #Beethoveninblue il JeansMusic Lab raccoglie e racconta le loro storie in una serie di interviste “crossover”

Ha 26 anni e suona le percussioni già da 14: l’anno scorso è stato inserito tra i dieci migliori vibrafonisti italiani. Cristiano Pomante, abruzzese trapiantato a Milano, ha cominciato ad ascoltare musica fin da bambino grazie al padre percussionista, di cui ha seguito le orme. Crescendo, alla musica classica ha aggiunto il jazz e ai piatti della batteria anche uno strumento poco conosciuto, il vibrafono. L’anno scorso ha pubblicato l’album “La Storia”, con il quartetto che porta il suo nome.

Ormai la musica non ha più confini, i giovani compositori sono cresciuti con il jazz, il rock e il pop nelle orecchie e gli artisti pop sono inevitabilmente influenzati dal repertorio classico del XX secolo. Mi sento parte di questa generazione di musicisti che ha vissuto l’incontro di diversi stili e generi: forse per questo non sento distinzioni.


Cristiano Pomante

Dunque, uno dei migliori vibrafonisti italiani. Com’è arrivato a questo strumento così inusuale?

In realtà ho cominciato con le “semplici” percussioni, grazie sopratutto al mio papà, percussionista a sua volta. A 12 anni sono entrato nella classe di strumenti a percussione al conservatorio di Pescara dove poi mi sono diplomato. Ma ricordo ancora con emozione la prima volta che sentii suonare un vibrafono da mio padre nella casa dei miei nonni: rimasi folgorato dal suo suono affascinante. Ho iniziato a studiarlo durante il corso di studi in percussioni; poi cinque anni fa, dopo il diploma, mi sono trasferito a Milano per prendere il diploma di secondo livello in vibrafono jazz con il maestro Andrea Dulbecco presso il conservatorio Giuseppe Verdi.

Quindi prima classica e poi jazz?

Esatto, la classica studiando il repertorio in conservatorio e suonando in orchestra. Il jazz è arrivato ascoltando i vinili di mio padre: mi ha sempre accompagnato lungo il mio percorso. E dopo il diploma di secondo livello ho deciso di elevare il vibrafono a mio strumento principale! Ho avuto la fortuna di essere sempre stato incoraggiato a suonare dalla mia famiglia, e ancora oggi insegnanti e amici continuano a sostenermi. Anche se devo dire che, avendo avuto occasione di lavorare anche all’estero, ho notato che fuori dall’Italia la professione è più riconosciuta, rispettata. La musica viene percepita come parte fondamentale della vita. In Italia ci sono musicisti incredibili che non hanno nulla da invidiare ai colleghi internazionali, purtroppo il pubblico non comprende l’impegno e il lavoro incredibili che ci sono dietro un concerto.

Si considera un musicista classico o jazz?

Tutti e due! Penso che nel XXI secolo contrapporre la musica classica alla cultura pop e jazz non abbia più alcun senso. Ormai la musica non ha più confini, i giovani compositori sono cresciuti con il jazz, il rock e il pop nelle orecchie e gli artisti pop sono inevitabilmente influenzati dal repertorio classico del XX secolo studiato in conservatorio. Pensiamo a quanto Debussy ha influenzato il jazz con la sua rivoluzione armonica, giusto per fare un esempio. Mi sento parte di questa generazione di musicisti che inevitabilmente ha vissuto l’incontro di diversi stili e generi. Forse per questo non sento distinzioni: jazz e classica hanno incominciato a influenzarsi tanto tempo fa. Ritrovo nel jazz la dissonanza modernista di Shoenberg e dei dodecafonici, la rivoluzione ritmica di Stravinskij e Bartok, le sperimentazioni sull’elettronica di Stockhausen… Di contro tanti maestri del 900 hanno “tributato” il jazz, pensiamo per esempio a Shostakovich e la sua jazz suite. Chiaramente ci sono sempre spiriti più severi che continuano a insistere sulle differenze nel vocabolario musicale, ma la musica è un’esperienza universale che in quanto tale abbraccia tutto e tutti!

C’è un professore che ha inciso nella sua vita?

Il primo ricordo va a Clara Perra, persona di incredibile carisma e umanità. Gran parte di quello che ho ottenuto lo devo a lei, che mi ha insegnato prima di tutto a credere in me stesso e nelle mie capacità. Poi il maestro Andrea Dulbecco, con il quale mi sono specializzato in vibrafono jazz presso il conservatorio di Milano. Con lui ho capito cosa vuol dire essere dei professionisti dello strumento e come forgiare la propria personalità artistica. Infine c’è il maestro Ramberto Ciammarughi con cui continuo gli studi sull’improvvisazione, la composizione e l’arrangiamento. Lui vive la musica in tutte le sue forme! Mi insegna ad essere un musicista che ascolta se stesso e il mondo circostante.

Non capita tutti i giorni che un musicista classico suoni anche altra musica…

Invece no: mi capita sempre più spesso di incontrare colleghi che praticano diversi stili. Penso sia normale e giusto che un collega possa sentire la necessità di allargare i propri orizzonti artistici, per aggiungere qualcosa in più. È una ricchezza che va però affrontata con rispetto e intelligenza. Praticare più generi aggiunge ulteriori possibilità di espressione e aiuta ad avere uno sguardo più ampio sulla propria identità artistica e sul proprio lavoro.

Suonando in orchestra è più difficile esprimere la propria individualità, ma è altrettanto entusiasmante sentirsi parte di una piccola “società” che coopera per un obiettivo comune.


Cristiano Pomante

Quando ascolta musica, quale genere preferisce?

Gran parte degli ascolti che faccio sono guidati dalla ricerca e dallo studio di qualcosa. In questo periodo mi dedico molto alla composizione e sento inevitabilmente una forte ispirazione e ammirazione verso i grandi compositori del 900.

Il rapporto con il pubblico cambia se suona in orchestra o con formazioni più piccole?

Con il mio quartetto sento un rapporto più diretto. Prima di tutto perché presento la mia musica originale che mi coinvolge in prima persona. E poi perché l’organico ridotto consente un’intimità maggiore a livello percettivo e visivo. Chiaramente suonando in orchestra è più difficile esprimere la propria individualità, ma è altrettanto entusiasmante sentirsi parte di una piccola “società” che coopera per un obiettivo comune.

Come mai ha scelto di dare al quartetto il suo nome?

Dopo un’intensa riflessione, che ogni tanto ancora mi tormenta, ho deciso di accantonare la professione dell’orchestrale per lavorare come musicista indipendente. Da qui è nato il “Cristiano Pomante 4et”, che porta il mio nome perché propone la mia musica originale e la mia visione artistica della vita. Abbiamo incominciato con piccoli live nei jazz club di Milano fino ad approdare a festival e rassegne. L’anno scorso abbiamo pubblicato il nostro primo album “La Storia”, che attualmente presentiamo nei live. Insieme a me ci sono Marco Giongrandi alla chitarra, Michele Tacchi al basso elettrico e Alessandro Rossi alla batteria. Sono musicisti formidabili!

Il Cristiano Pomante 4et non è, però, il suo unico gruppo…

No, infatti! Sono alla continua ricerca di un mio linguaggio e una mia identità, che cerco attraverso la composizione, un lato della musica che mi affascina molto. Provo a unire la mia esperienza classica e jazz attraverso la composizione di musiche originali, in un nuovo contenitore di idee senza una distinzione di genere particolare. Così ho iniziato a spendere tempo ed energie alla ricerca di un equilibrio strutturale che desse maggior carattere e forza emotiva alla mia musica.

Questa ricerca a cosa l’ha portata?

Alla nascita del Cristiano Pomante Double 4et! Il progetto è un prolungamento del quartetto iniziale, a cui ho aggiunto un quartetto d’archi, formato da Alessio Cavalazzi e Luca Rapazzini, entrambi al violino, Stefano Montaldo alla viola e Bruna Di Virgilio al violoncello. In questo modo il quartetto jazz si relaziona a quello classico. E pur provenendo da epoche e stili diversi, i due ensemble hanno molto da condividere.

Che ruolo ha la musica nella sua vita?

Penso che la musica e l’arte in generale parlino della vita in tutte le sue forme, quindi la musica è necessaria per la vita di tutti. Nessuno dovrebbe privarsi di questa magnifica arte che ha la capacità di far divertire, riflettere, piangere… non avrebbe senso! Perciò sento un grande privilegio e al tempo stesso una grande responsabilità. Alcuni momenti magici della mia vita sono legati proprio a esperienze musicali: per esempio un importante concerto con il maestro Antonio Buonomo, didatta e percussionista internazionale, poi una tournée incredibile con la “Compagnia Italiana di Operette”; e ancora, un concerto in Russia con un’orchestra giovanile per un festival internazionale…

Lei è supersocial: ha un profilo Facebook, personale e del quartetto, una pagina Youtube, è presente su Linkedin e Soundcloud…

Sono strumenti utili per la promozione e la divulgazione del proprio lavoro, ma allo stesso tempo penso contribuiscano alla creazione di un mondo virtuale che altera la percezione reale delle cose. Dal mio punto di vista la qualità di un musicista non si misura dai “like” ricevuti: la musica va ascoltata dal vivo! Ci sono tanti musicisti, bravi, che hanno bisogno del sostegno di un pubblico sempre meno presente nelle sale da concerto.

Forse per attirare i giovani ai concerti classici bisognerebbe “svecchiare” il contesto, adeguando abbigliamento e scenografia al mondo di oggi?

Innanzitutto le famiglie dovrebbero educare di più i figli all’ascolto quotidiano e in teatro. Effettivamente poi mi è capitato, specie in concerti di musica contemporanea con ensemble più piccoli, di notare che i musicisti erano sul palco con un abbigliamento più informale. Anche l’impatto scenografico è molto importante e senza ombra di dubbio può essere un motivo valido per avvicinare un pubblico più giovane alle sale da concerto. L’utilizzo delle luci e di scenografie moderne e ben costruite renderebbe tutto più entusiasmante!

Intervista di Marianna Lepore per JeansMusic Lab

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