Nella casa viviamo e facciamo economia, che è amministrazione e cura delle cose domestiche; in casa familiarizziamo con l’ordine e in quest’ordine, nei casi migliori, troviamo una base sicura indispensabile per le più ardite esplorazioni.
Con un tetto sopra la testa cresciamo e impariamo quella fiducia in noi stessi che ci rende capaci di varcare l’uscio e di portarci la casa e la sicurezza nel cuore, lasciando alle spalle il nido. Senza una casa che ci abbia accuditi non possediamo questa sicurezza che ci rende forti. Diventiamo invece vulnerabili alle offese del mondo. Per questo i rifugiati fuggono da una casa matrigna e cercano altrove quella sicurezza che non hanno trovato nella loro terra.
Gli psicologi, nel loro gergo non sempre amichevole, chiamano questa debolezza del cuore “vulnerabilità emotiva”, in inglese emotional vulnerability. E questa vulnerabilità si cristallizza in una visione di sé indebolita e ferita, facile al tremore e al panico. Il disturbo da panico è proprio il malanno di chi non ha questa zona confortevole del sentire interiormente che da qualche parte c’è una casa che ci aspetta accogliente, un luogo protetto in cui la sicurezza personale sia garantita e in cui siano presenti genitori in grado di fornire nutrimento e accudimento. Priva di questo, la persona si sente vulnerabile e non protetta fisicamente.
È possibile che questa debolezza sia legata a reali esperienze traumatiche, un clima in cui la persona ha vissuto i genitori e/o le esperienze di vita come pericolose e in cui ha provato un vero senso di minaccia al senso di sicurezza, come accade a chi proviene da zone di guerra oppure ha provato sulla sua pelle la violenza in famiglia. La minaccia al bisogno di sicurezza e protezione ed esperienze emotive di pericolo di vita estreme e insostenibili, di fronte alle quali l’individuo è impotente, può portare a provare stati terrificanti di panico e paura paralizzante, il cosiddetto freezing.
Il disturbo da panico è proprio il malanno di chi non ha questa zona confortevole del sentire interiormente che da qualche parte c’è una casa che ci aspetta
La casa non dà solo protezione, ma anche amore e calore. E quando questo manca si ha tristezza e depressione. È la condizione del disamore, in cui l’ambiente protettivo è presente e non è contrastato il bisogno esplorativo del soggetto, ma il tutto è fornito in un’atmosfera di deprivazione emotiva, il cosiddetto neglect, di affettività distante e non calorosa e in cui i contatti corporei sono rari e impacciati. Può dipendere –ma non necessariamente- da un’esperienza di genitori “freddi” ed emotivamente troppo distaccati. La persona si vede e si sente non amata, triste e vuota.
In altri casi, invece c’è protezione e calore, si cresce in un ambiente personale sufficientemente sicuro, caldo, accogliente e rassicurante, ma manca un terzo elemento, anch’esso importante. Ed è l’incoraggiamento a esplorare, a uscire di casa, a sentirsi al sicuro anche fuori. I genitori sono stati presenti, protettivi e accoglienti ma non hanno offerto modelli per affrontare il mondo perché troppo ansiosi e iperprotettivi. Ricerche sulle storie familiari hanno messo in luce la possibilità di una trasmissione dell’ansia per passaggio esplicito d’informazioni (“non uscire, fuori è pericoloso!”) o indirettamente, con il brutto esempio di un atteggiamento sempre allarmato e timoroso di uscire di casa ed esplorare il mondo.
La casa può essere prigione o conforto, fonte di forza o debolezza, principio di libertà o di oppressione, insegnamento di spirito critico o di sottomissione
Infine, vi è un quarto caso, in cui l’ambiente accudente e protettivo è presente e le funzioni esplorative non sono state contrastate ed è perfino presente un certo calore affettivo. Tuttavia, purtroppo, è anche presente uno stile gravemente criticante, controllante e oppressivo in cui i valori di autocontrollo morale sono trasmessi e vissuti in maniera oppressiva, colpevolizzante e punitiva. La persona ha una percezione diretta dei genitori come critici e frustranti oppure l’ha ricevuta indirettamente attraverso l’obbligo di adesione a norme morali rigide e tende a giudicarsi incompetente, inferiore, stupida, umiliata, indegna moralmente e colpevole.
La casa ha dunque le sue pene e le sue gioie, anche psicologiche. O soprattutto psicologiche: essa può essere prigione o conforto, fonte di forza o debolezza, principio di libertà o di oppressione, insegnamento di spirito critico o di sottomissione. Se siamo fortunati, la casa è una benedizione di cui non si è mai abbastanza riconoscenti. Altrimenti, meglio dimenticarla e tentare di cavarsela senza, o meglio cercare di crearne una migliore altrove.