Emergenza rifugiatiIdomeni sgomberata, l’Europa non abita più qui

FOTOGALLERY ESCLUSIVA. Le immagini del campo profughi spontaneo al confine tra Grecia e Macedonia dopo lo sgombero da parte della polizia greca

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Un passeggino capovolto nel fango. Un paio di calzini appesi al filo spinato. Centinaia di mosche sopra le montagne di coperte, vestiti e cibo. Dopo la fine dello sgombero, a Idomeni regna il silenzio. A raccontare che cosa è stato questo immenso campo al confine tra Grecia e Macedonia restano gli oggetti sopravvissuti alla furia delle ruspe. Prima luogo di passaggio verso Balcani ed Europa centrale. Poi, dopo la chiusura del confine, casa di migliaia di siriani, afghani e iracheni. L’ultimo censimento parlava di circa 8.400 persone, ma qui ce ne sono state anche 13 mila. Ora Idomeni è una città deserta. Scarpe, scarpette, vestiti, pennarelli, giocattoli, padelle e pacchi di pasta sono i silenziosi testimoni degli ultimi giorni del campo. Sono tutti lì, ammassati fuori e dentro le tende. Tutto sembra abbandonato all’improvviso, come quando si è costretti a fuggire dall’arrivo di uno tsunami. Le pentole ancora sporche di sugo pronte per essere lavate, i panni stesi pronti per essere indossati.

I poliziotti sono arrivati in tenuta antisommossa da ogni parte della Grecia all’alba del 24 maggio. Solo poche ore prima il via libera dell’Eurogruppo alla nuova tranche da 10,3 miliardi di aiuti ad Atene. I giornalisti sono stati tenuti a distanza, ma si racconta che tutto sia avvenuto pacificamente. «Sono venuti alle cinque e mezzo del mattino», dicono due volontari di San Francisco mentre smontano quel che resta di una delle scuole del campo. «La gente si è svegliata, è uscita dalle tende e si è trovata circondata da poliziotti armati. Per forza lo sgombero è stato pacifico. Li hanno caricati sui pullman senza dire dove li avrebbero portati».

Sull’ingresso della scuola che viene giù, asse dopo asse, sono dipinti i nomi di diversi Paesi, forse le mete sognate dagli studenti: qui entravano fino a 150 bambini in uno spazio di pochi metri quadrati. I minori erano circa il 40% della popolazione del campo, molti anche da soli. Tra le impronte delle ruspe sono ancora tanti i segni del passaggio dei più piccoli. Dal fango incrostato sotto il battere del sole spuntano decine e decine di peluche, pennarelli, giocattoli, quaderni per scrivere e disegnare, guanti e scarpette. Tutto intorno, le tende sopravvissute dopo la “bonifica” delle autorità e delle ruspe. La maggior parte di quelle che erano diventate le case di intere famiglie in fuga dalla guerra sono state spazzate via in soli tre giorni. All’interno delle poche tende rimaste in piedi si trovano ancora i segni di una quotidianità ai limiti della dignità umana. Tra spazzolini e assorbenti femminili, restano i messaggi scritti sui teloni: “Aprite i confini”, “I confini uccidono”, “Libertà ora”.

Le coperte grigie, tutte uguali, distribuite dall’Unhcr, vengono raccolte a mucchi negli angoli. Decine di lettighe divelte di Medici senza frontiere sono sparse per il campo. Il personale addetto alla pulizia, in silenzio, accatasta tutto ai bordi dei binari della ferrovia. Grandi sacchi neri pieni fino all’orlo sono pronti per essere buttati. I camion arrugginiti vanno e vengono caricando le macerie. Vestiti, giocattoli e speranze di migliaia di persone finiscono così dritti nella spazzatura.

Mentre gli abitanti di questo grande campo diventato la vergogna d’Europa vengono redistribuiti nei campi militari intorno a Salonicco. Il governo greco li ha organizzati in tutta fretta tra le rovine delle fabbriche abbandonate, spazzate via (anche loro) dalla crisi economica. Spesso senza acqua e servizi igienici adeguati, con i camion ancora all’opera tra i bambini. Intere famiglie sballottate da un campo all’altro come in un girone infernale. C’è chi è finito a Neokavala, a due chilometri dal centro di Polykastro, chi a Katerini, chi a Softex, chi a Sindos, dove un solo rubinetto fornisce l’acqua per centinaia di persone. Qualcuno, davanti alle notizie di uno sgombero imminente, ha fatto in tempo a spostarsi qualche ora prima in una delle tante piccole Idomeni sorte intorno alle stazioni di benzina. Ogni giorno c’è chi si prepara ad attraversare il confine nella notte. Ma tanti, dopo aver pagato centinaia di euro ai trafficanti, si vedono tornare indietro. Siamo in Europa, sì, ma l’Europa non abita più qui.

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