L’alba della terza Repubblica: contro i vecchi partiti e le élite

Il lato anti-establishment delle amministrative. Perde il Pd, perde la Lega (ed è disastro al Sud), si salvano i sindaci “arancioni” e la faccia simpatica di Parisi a Milano. Ma il dato resta: l’elettorato è sempre meno condizionato dagli endorsement dei capi partito

Arriva il famoso giudizio degli elettori, e non è un bel vedere per nessuno dei vecchi partiti. Ora è piuttosto chiaro perchè Matteo Renzi ha disperatamente cercato di spostare l’attenzione da questa tornata elettorale al referendum di ottobre: non c’è, in tutta Italia, un risultato a cui il Pd possa aggrapparsi per dire “siamo sulla buona strada”. Non Milano, dove Sala è a una lunghezza da Parisi, che già ieri nelle dichiarazioni a caldo era al lavoro per annettersi il voto anti-establishment e persino quello dei delusi di sinistra. Non Roma, dove la distanza tra Giachetti e la Raggi è enorme e inaspettata. Non Bologna, né Torino, dove i sindaci uscenti fanno numeri da perfetti debuttanti. E a Napoli la Valente, malgrado le molte poste messe sul tavolo – il patto per il Sud, i miliardi a Bagnoli – e l’alleanza con Ala, e il rais De Luca e tutto il resto, resta al palo con un triste terzo posto.
Ci sarebbe Cagliari: Zedda, caso unico, passa al primo turno. Ma Zedda non è del Pd. E’ uno dei sindaci della “rivoluzione arancione” di cinque anni fa, l’unico superstite di quella tornata insieme a De Magistris: tutti e due hanno sbancato, e nel loro risultato c’è la chiave degli orientamenti del voto di sinistra che vince dove sa farsi anti-establishment, popolare, Masaniello, alternativo al voto di apparato, non-allineato agli assetti nazionali, “voto contro” pur restando nel recinto del nuovo Arco Costituzionale costruito da quando il M5S si è affacciato alla ribalta.

In questo campo, la cifra a cui guardare non è un partito o un numero ma appunto la faccia del signor Stefano Parisi: un civil servant simpatico e non-trombone

A destra, il Trump italiano non c’è. Giorgia Meloni si è giocata il ballottaggio per un paio di punti, e i voti che le sono mancati per farcela sono quelli della Lega: Noi Con Salvini a Roma si è fermato a un misero 2,7 per cento, sotto la soglia di sbarramento che fa scattare consiglieri, ed è il mancato risultato del Carroccio a strangolare il risultato finale.
A Milano, dove la sfida fra modello lepenista e centrodestra “d’antàn” si giocava sul voto di lista, la Lega è a quota 11 per cento, doppiata da Forza Italia. A Torino è il disastro: Morano, imposto da Salvini, si ferma all’8 per cento, con la lista del partito sotto al 6. E persino a Bologna, nonostante l’obiettiva forza personale della leghista Lucia Bergonzoni che approda al ballottaggio, l’asticella della doppia cifra è appena superata.
È difficile immaginare che la linea populista possa imporsi nel centrodestra con questi risultati a macchia di leopardo, qualcosa al Nord e quasi niente da Bologna in giù. Per di più, gli unici due al ballottaggio – Parisi a Milano e Lettieri a Napoli – sono stati tirati fuori dal cilindro di Berlusconi, e da lui imposti all’alleanza. In questo campo, la cifra a cui guardare non è un partito o un numero ma appunto la faccia del signor Stefano Parisi: un civil servant simpatico e non-trombone, capace di ironia in tv e sui palchi, che ha rifiutato lo schema dello scontro frontale in nome di una conquista sorridente del consenso e di un pragmatismo senza accidia. E’ lui che ha salvato il centrodestra dalla debacle e dalla condanna senza appello all’irrilevanza. Ma è una faccia più unica che rara.

Insomma, il fiatone delle vecchie elìte si sente. E si sente all’improvviso, assai più forte del previsto, soprattutto a sinistra dove la stagione del Renzi Rottamatore per un paio d’anni sembrava aver ridato slancio alla corsa. Solo nel 2014 il Pd celebrava le Europee del 40 per cento, e l’ovvia domanda è: cosa è successo nel frattempo? Si potrebbe rispondere citando il duello con l’opposizione interna, l’evidente renitenza dell’area Bersani, le conseguenze profonde di Mafia Capitale, lo spirito vendicativo di una parte dell’antico elettorato che è andato ai seggi come un’innamorata tradita, “per fargliela pagare”, “per dargli una lezione”. Ma tutto ciò non basta a spiegare. La cornice in cui il dato va inchiodato è più larga e robusta di quella dei “gufi”. E’ un dato continentale in senso vasto, è il brivido che si estende da Parigi, Londra, Vienna fino a Washington, l’eco sui territori della ribellione alle elìte e alle burocrazie, il tam-tam che in tutto l’Occidente sposta consensi verso la protesta contro la democrazia dell’obbedienza e del sissignore, e non c’è riforma, risultato, 80 euro che tengano davanti a questo sentimento di dissociazione profonda dalle filiere che hanno gestito il trentennio post-Guerra Fredda, promettendo benessere e costruendo una crisi dopo l’altra.

L’elettorato ormai si muove per dinamiche sue, non è più condizionato dagli endorsement dei capi-partito, dalle telefonate della sezione o della parrocchia

Consociare i vecchi assetti di potere destra/sinistra per arginare questo mood è una delle possibili soluzioni. Ci ha provato tutta Europa, nella stagione – ancora in corso – delle Grosse Koalition, e in qualche modo è anche l’esperimento italiano tuttora in corso. Partiti di governo contro partiti di lotta. Finora ha funzionato a fasi alterne. Ha tenuto (per ora) fuori dal potere Marine Le Pen in Francia e Norbert Hofer in Francia, ma non ha fermato né Iglesias né Tsipras, né in Scozia l’indipendentista Nicola Sturgeon. In Italia, il tripolarismo è ancora un dato nuovo, e questa tornata amministrativa è il primo test sul campo. Le simulazioni dicono che sarà più facile associare il voto “contro” che il voto “per”, anche perchè l’elettorato ormai si muove per dinamiche sue, non è più condizionato dagli endorsement dei capi-partito, dalle telefonate della sezione o della parrocchia, e perché l’epoca dello scontro frontale con il berlusconismo è troppo recente per promuovere sante alleanze che convincano.
È piuttosto difficile immaginare l’elettore di centrodestra che va a votare per Fassino o per Giachetti, o quello di sinistra che si mette in fila per Lettieri, così come è arduo pensare che la sinistra-sinistra con le sue liste costruite apposta per far perdere il Pd, in quindici giorni ritorni alla casa del padre nel nome della “diga anti-barbari”. E però ci si dovrà provare. Anche perchè questa, non bisogna dimenticarlo, è la prova generale dell’Italicum, la nuova legge elettorale a doppio turno che fra un anno o due riprodurrà su scala nazionale l’enigma tripolare: che succede se alle politiche prossime venture al ballottaggio va il Cinque Stelle? Sicuri sicuri di poterlo fermare con l’appello in extremis al voto responsabile?

Ps. Nel frattempo, nei 15 giorni che mancano ai ballottaggi, a sinistra non guasterà limitare i “Ciaoni” e le gag contro i nemici interni; a destra sottrarsi all’esibizione muscolare, sparire dai palchi e lasciar fare a Parisi. Poi, alla fine di tutto, riflettere su questo celebrato Italicum: più che una legge per la governabilità, comincia a sembrare un azzardo da Poker Hold’em.

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