Contro i compiti delle vacanze

Sono lo spauracchio di ogni studente e studentessa, ma sono completamente inutili, dannosi e sono il sintomo di una scuola che tiene alla forma più che alla sostanza, una scuola che serve a preparare schiavi, non donne e uomini liberi

Centinaia di espressioni matematiche da risolvere; altrettante questioni di geometria analitica da dimostrare; classici da raccattare in polverose librerie dei nonni e da leggere, recensire, schedare; saggi storici pesantissimi da leggere una pagina sì e dieci no; e poi eserciziari di grammatica, di inglese, di francese, e magari, per i più sfigati, anche di latino. Sono i compiti delle vacanze, e da decenni sono lo spauracchio di milioni di ragazzi e ragazze di tutto il mondo che, una volta finita la scuola e dimenticati i professori, si ritrovano alle calcagna i genitori con quella loro domanda insistente: “Hai fatto i compiti delle vacanze?”

Bene, in un mondo giusto la risposta a quella domanda sarebbe un perentorio No. Perché i compiti delle vacanze sono inutili, ridicoli e dannosi. E, in quel mondo perfetto in cui le scuole insegnano a vivere e non a patire, sarebbero da abolire. Ma siamo in un mondo sbagliato, e l’obiettivo delle nostre scuole è un cattolico soffrire, un espiare con il dolore e con la noia il prezzo del sapere. Se l’obiettivo fosse imparare, l’estate sarebbe l’estate.

Sì, perché i compiti delle vacanze sono il retaggio di una scuola premoderna, che scambia la formazione con la punizione e il sapere con la noia. Soltanto una scuola idiota, infatti, può pensare che sia istruttivo occupare il tempo estivo di centinaia di migliaia di minorenni con delle stupide equazioni, delle inutili grammatiche prescrittive o dei libri da leggere che interessavano al massimo ai loro nonni. Soltanto una scuola demenziale può pensare che sia istruttivo dare dei compiti simbolici, che non saranno mai corretti e che saranno fatti tutti insieme nei primi tre giorni, nel caso dei secchioni, o tutti insieme negli ultimi tre giorni, per i più cazzoni.

Anche soltanto il pensare di poter riempire i tre mesi estivi di ragazzi e ragazze nell’età della crescita, della scoperta e dell’esperienza con ignobili e inutili esercizi è ridicolo e dannoso. È un vero e proprio atto di aggressione alla libertà di crescere dei ragazzi. È il risultato di una scuola bigotta, che crede più alla forma che alla sostanza, che vede il tempo extrascolastico come un tempo morto, inerte e inutile; un tempo concorrente, e non complementare, al tempo scolastico che, al contrario — almeno agli occhi di quei professori o quelle professoresse democratiche da libro Cuore — dovrebbe essere quello vivo, proficuo e utile.

Ma una scuola che non capisce che questa dicotomia è un affronto all’intelligenza e che, non capendo l’importanza dell’esperienza extrascolastica, la minaccia con i compiti delle vacanze, è una scuola autoritaria e pericolosa. E lo scopo di una scuola del genere non può essere costruire donne e uomini con una testa per affrontare la vita, ma abituare bambini e ragazzi a quello che li aspetta: un futuro alienante di adulti alienati.

Il termine vacanza ha radici antiche, latine. Deriva da vacantia, quindi da vacans, participio presente del verbo vacare. E il vacare esiste nello spazio vuoto, vacuo, sgombro, libero. E libero da cosa, se non da occupazioni, preoccupazioni e dannati compiti delle vacanze?

Per questo i compiti delle vacanze sono una contraddizione in termini, perché quando c’è un compito, non c’è vacanza. Perché vacanza è una parola bella e nobile, e lo dovrebbe essere per tutti, sia per gli studenti, sia per i lavoratori. Dovrebbe essere un diritto inalienabile e sacro proprio in quanto tempo dell’assenza, del vuoto, dell’ozio quello vero.

E invece la concezione di scuola che la politica bacchettona e terrorista dei compiti delle vacanze lascia trasparire è una concezione rigida, pericolosa, antilibertaria e quindi, in fondo, autoritaria. Una concezione drammatica e triste, incapace di capire che le regole sono soltanto una griglia interpretativa attraverso le quali guardare il mondo e non una griglia di verità a cui la realtà si deve inginocchiare davanti. D’altronde la realtà, come l’estate, è fatta di eccezioni, non di regole, come la scuola.

E una scuola del genere è figlia di anni totale incomprensione di cosa sia l’atto di imparare. Non si impara nulla se minacciati. Non si impara nulla se annoiati. Non si impara nulla se si è costretti a perdere tempo in esercizi meccanici e inutili. Non si impara nulla se non si parte dal presupposto che imparare è accumulare esperienza, e che l’esperienza non è soltanto l’esperienza scolastica.

Le vacanze, in realtà, sono il tempo più formativo dell’anno. E lo sono proprio perché non c’è la scuola. Sono il tempo dell’autonomia, della libertà, il tempo in cui si affrontano le paure e le si supera, il tempo delle esperienze che ci fanno diventare adulti. Durante le vacanze si accendono i fuochi, si dorme in spiaggia, si baciano le ragazze e ci si tuffa dagli scogli più alti. L’estate è il tempo dove 1+1 non fa 2, ma, molto più semplicemente, 1+1.