A qualche settimana dal referendum sulla revisione costituzionale proposta dal Governo Renzi il dibattito stenta ancora ad entrare nel merito. Esso è ostaggio di un confuso e aspro confronto, che conferma quanto rilevato da Alessandro Pizzorusso in La Costituzione ferita (Laterza, 1999), e cioè che la seconda parte della Costituzione – che ad un certo punto è stata innaturalmente separata dalla prima, spezzando il testo in due tronconi – è divenuta oggetto della quotidiana contrapposizione politica.
La Costituzione è una cosa viva, come ricorda Calamandrei, nella quale bisogna mettere benzina e infatti Pizzorusso invita a compiere sulla stessa un’opera di manutenzione e di riforma di quanto necessario, senza che l’unico intervento debba essere quello di una “grande riforma” all’insegna dell’”ora o mai più”. Questo sembra al riformista che osserva il dibattito in corso l’errore in cui sono caduti gli odierni revisori del testo costituzionale, come alcuni loro predecessori, che hanno così sprecato l’occasione di un opportuno aggiornamento della Carta. Ciò è particolarmente evidente in relazione al cuore di tutta la modifica, ossia il superamento del bicameralismo perfetto o paritario: mai più due Camere che facciano esattamente le stesse cose.
Sul punto c’è un’amplissima condivisione, ma con differenti motivazioni. Qualcuno vuole soltanto semplificare le cose, rendere più rapide le decisioni. In questo senso, la scelta più lineare sarebbe quella del monocameralismo: una sola Camera assume la decisione che diviene definitiva. Si tratta di una scelta forte e innovativa, magari poco attenta a quanto diceva Bobbio circa la necessità che le risposte siano lente, o più banalmente in contraddizione con il fatto che “due occhi vedono meglio di uno”, ma certamente coerente con le esigenze di rapidità e semplificazione. Altri, invece, vorrebbero affidare alla seconda Camera una funzione di riflessione, controllo e garanzia, come in parte avevano inteso fare i costituenti: in questo caso questa assemblea potrebbe essere eletta per un periodo più lungo rispetto alla Camera “politica” e sottratta ad un diretto rapporto con l’Esecutivo (eliminando in particolare il voto di fiducia). Infine, altri ancora ritengono necessario avere una Camera rappresentativa delle Regioni, considerato il loro ruolo politico che si esplica soprattutto attraverso l’ampia funzione legislativa che le stesse hanno assunto in Italia a partire dalla riforma del titolo V del 2001. In questo caso, quindi, la seconda Camera dovrebbe essere inserita in un assetto federale, essere composta da esponenti delle diverse Regioni e prevedere meccanismi decisionali (e in particolare di voto) idonei a rappresentare la volontà delle stesse.
Ora, la riforma in questione non opta per nessuna di queste soluzioni, pur occhieggiando senza successo all’ultima. Così, mentre si riduce il ruolo politico delle Regioni (allontanandosi dalla prospettiva federalista alla quale inclinava la revisione del titolo V del 2001), si lascia che i consiglieri regionali si sostituiscano ai cittadini nella scelta dei senatori, pescati nel loro stesso consesso o tra i sindaci della Regione stessa, in rappresentanza – proporzionale – delle articolazioni regionali dei partiti, di cui seguiranno normalmente le indicazioni nelle decisioni da assumere in Senato. A questi si uniranno senatori scelti dal Presidente della Repubblica ed ex Presidenti della Repubblica, che certamente non rappresentano quelle istituzioni territoriali che invece il Senato vorrebbe cercare di rappresentare (secondo espressa previsione del testo).
180 delle 224 leggi di questa legislatura sono state approvate a seguito di un solo passaggio in ciascuna Camera e anche nei rari casi in cui è servito un passaggio in più, se la maggioranza ha voluto, il tutto è avvenuto in tempi rapidi. Ora, a seguito della revisione, la situazione sembra peggiorare
A un modello di composizione confuso corrispondono funzioni confuse, in base alle quali certamente il Senato si occuperebbe di molte cose, ma – come ha recentemente detto De Siervo – non di ciò che le Regioni devono fare, mancando così proprio a quella funzione di “raccordo” tra il livello centrale e gli altri livelli di governo che rimane, sulla carta, privo di concretezza. Le funzioni a questo attribuito non garantirebbero, d’altronde, quella semplificazione che si dice di ricercare. Il procedimento legislativo è infatti oggi – a differenza di quanto spesso si dica – piuttosto snello: 180 delle 224 leggi di questa legislatura sono state approvate a seguito di un solo passaggio in ciascuna Camera e anche nei rari casi in cui è servito un passaggio in più, se la maggioranza ha voluto, il tutto è avvenuto in tempi rapidi (ad esempio, sul finanziamento dei partiti politici dalla prima approvazione a quella definitiva, in due soli passaggi, sono trascorsi soltanto 35 giorni). Ora, a seguito della revisione, la situazione sembra peggiorare: i procedimenti e sub-procedimenti diventano numerosi e complessi, difficili da scegliere, per di più esponendo le leggi a maggiori rischi di impugnazione alla Corte costituzionale. Questo potrebbe portare ad un’ulteriore assunzione del ruolo di legislatore da parte del Governo, con il procedimento del voto a data certa che semplicemente si aggiunge (senza sostituirvisi, come si sarebbe potuto pensare) a quello della decretazione d’urgenza e ai decreti legislativi.
In sostanza, la riforma non contiene nessuna semplificazione come nessuna valorizzazione dei cittadini, né attraverso i loro rappresentanti nella Camera dei deputati (unica ancora eletta a suffragio universale), né attraverso gli istituti di democrazia diretta, le cui previsioni sono piene di rinvii a leggi costituzionali, leggi ordinarie e regolamenti parlamentari. Soprattutto, però, questa revisione costituzionale non tiene conto del fatto che – come sa chi concretamente si trova a operare in Italia – il problema non è tanto quello della velocità nell’approvazione delle leggi, ma quello di avere regole chiare e attendibili: è un problema, in sostanza, di certezza del diritto, rispetto alla quale le cose sembrano peggiorare.
Questo non pare certamente agevolare gli investimenti e contribuisce a dubitare fortemente che da questa riforma possa avere qualche vantaggio la situazione economica, come talvolta viene detto, anche contro alcuni documenti elaborati da istituzioni internazionali. Infatti, ad esempio, da uno studio dell’Ocse del 2014, anche recentemente richiamato dal Governo a sostegno della riforma costituzionale, risulta, invece, che i benefici che le “riforme” (soprattutto ancora da approvare) da cui potrebbero trarsi vantaggi economici concretamente misurati sono quelle del lavoro, del sistema fiscale, della pubblica amministrazione e della giustizia, ma non la revisione della Costituzione, come abbiamo anche recentemente evidenziato ne La Costituzione spezzata (Lindau, 2016). E una conferma di questo risulta anche dal bollettino economico della BCE n. 5 del 2016, da cui emerge come, in effetti, sia importante per l’andamento dell’economia anche la qualità istituzionale, i cui indicatori sono, però, l’efficacia delle amministrazioni pubbliche, la qualità del quadro regolatorio, lo stato di diritto e il contrasto alla corruzione, tutti aspetti che, anche alla luce di quanto sopra detto non sarebbero incisi (e certamente non sarebbero migliorati) dalla riforma costituzionale in questione.
*Professore ordinario di diritto costituzionale dell’Università di Pisa