Il caso della bambina stuprata dai 13 ai 16 anni a Mèlito Porto Salvo (Reggio Calabria), è un agghiacciante episodio di cronaca sul quale si accumulano, strato dopo strato, una serie di luoghi comuni che non aiutano a comprendere l’accaduto, né a prevenire altri episodi futuri.
Primo, funereo e prevedibile, strato del luogo comune: le dichiarazioni del parroco, secondo cui “c’è molta prostituzione in paese”, o dell’altro parroco, secondo cui “sono tutti vittime, anche i ragazzi” (cioè gli stupratori). Le prese di posizione del Sindaco, che attacca il Tg3 regionale, reo di avere dipinto Mèlito in modo offensivo.
L’aura di giustificazionismo locale attorno alla vicenda è una terra dei fuochi della coscienza collettiva, nella quale il peggio viene occultato a se stessi e alla società. Sacrosanto far emergere e condannare l’ipocrisia di quest’atteggiamento, come tra gli altri ha fatto Flavia Perina due giorni fa su questo giornale.
Prima di prendersela con la madre di Chiara sarebbe il caso di chiedersi come mai, nonostante vari tentativi, a Mèlito non si sia mai riusciti ad aprire uno sportello antiviolenza. E come mai la Regione Calabria, che pure ha varato il la sua legge antiviolenza nel 2006, non ha mai stanziato un euro per attuarla
Ma i luoghi comuni (ripetiamo: fuorvianti, offensivi, e alla fine inutili) continuano ad accumularsi.
Dopo la chiusura tribale ora è il momento del pregiudizio ideologico di segno opposto, del moralismo civile, racchiuso nel concetto: “la madre sapeva e non ha detto niente”, come se alla fine la colpevole di tutto fosse lei, la madre. Riepiloghiamo: la figlia viene violentata da una serie di fuguri che vanno dal figlio del boss a quello di un maresciallo dell’esercito, al fratello minore di un poliziotto. Un circolo dell’orrore che fa capo ai poteri civili e mafiosi. L’ambiente in paese è quello che è. E appunto non si mette in conto che una madre possa avere paura di denunciare pubblicamente il fatto.Ora, si può simpatizzare o meno con la madre della ragazzina, ma una cosa è certa: per denunciare le violenze, dato il contesto, ci sarebbe voluta una certa dose di eroismo. E quest’ultimo (inutile citare Brecht: “sventurata la terra che ha bisogno di eroi”) non rientra dei doveri richiesti al cittadino, nemmeno in quelli di una madre per la quale l’istinto di protezione nei confronti della figlia dovrebbe superare quello di sopravvivenza.
Prima di prendersela con una donna presumibilmente terrorizzata, che è semmai parte lesa in un episodio terribile, sarebbe il caso di chiedersi come mai, nonostante vari tentativi, a Mèlito non si sia mai riusciti ad aprire uno sportello antiviolenza. E come mai la Regione Calabria, che pure ha varato il la sua legge antiviolenza nel 2006, non abbia mai stanziato un euro per attuarla.Forse sarebbe il caso, al netto di pregiudizi e ideologie, di dire alla filosofa Michela Marzano -che è anche onorevole, quindi rappresentante delle Istituzioni, e che non perde occasione sui social network per attaccare la madre della ragazzina- che il problema in questo caso è innanzitutto l’assenza dello Stato. E di ribadire al ministro Boschi che la sua presenza a Melito sarebbe una buona cosa. E alla Regione Calabria di implementare una buona volta i centri antiviolenza. Meno pretese di eroismo personale, più aiuti concreti. Grazie.