Minacce dall’est e rischi della solidarietà. L’occidente sta assistendo a una marea montante di forze populiste. Ross Dourthart sul New York Times, classificando gli approcci “post-liberali” alla politica, identifica tre diverse sfide al liberalismo: il nuovo radicalismo di sinistra, l’approccio neo-reazionario e quello dei “dissenzienti religiosi”. Queste filosofie politiche emergenti fanno leva su bisogni innati nell’uomo – l’attaccamento a una comunità, il senso dell’onore, le aspirazioni ultraterrene – che vanno oltre il soddisfacimento dei bisogni materiali di crescita e benessere che l’ordine liberale ha garantito per oltre 50 anni.
È d’altra parte possibile, secondo Dourthart, che la “civiltà liberale” esca rafforzata e arricchita da queste sfide. Judy Dempsey su Carnegie Europe adatta questo modello alla politica europea: sulle questioni chiave, come ad esempio la crisi dei migranti, si scontrano due visioni opposte. Da un lato c’è l’agenda “aperta” del Cancelliere tedesco Angela Merkel, per cui l’Unione Europea può resistere alle spinte disgregatrici solo facendo appello a valori di solidarietà. Sul versante opposto c’è una “agenda Orban” fatta di politiche e retoriche anti-europee, che punta a costruire barriere – tanto ideologiche quanto fisiche – tra gli stati dell’Unione.
Di fronte al referendum ungherese sul sistema di quote UE per la riallocazione dei rifugiati e alle violente proteste innescate da una controversa legge sull’aborto in Polonia, molti commentatori si chiedono se l’Europa centrale non stia distruggendo la solidarietà europea. Provocatoriamente, Vladimir Bartovic e Martin Ehl sostengono che non si può distruggere ciò che non esiste; Federiga Bindi invece sottolinea che l’esperienza del giogo comunista fa sì che gli stati dell’Europa Centrale non vedano di buon occhio le cessioni di sovranità. La maggior parte degli esperti comunque concorda sul fatto che la questione della solidarietà europea va oltre la semplice gestione dei rapporti tra istituzioni europee e paesi dell’Est.
Le insidie della democrazia diretta. Guardando alle esperienze dei referendum in UK, Ungheria e Colombia, Julian Baggini difende sul Guardian i meriti della democrazia rappresentativa contro i rischi della democrazia diretta. È illusorio pensare che la maggioranza delle persone sia in grado di pronunciarsi in modo equilibrato e informato su decisioni di policy specifiche. In particolare secondo Baggini perché la democrazia funzioni è più importante che gli elettori si fidino dei loro rappresentanti, che non l’opposto.
Il progetto europeo sta facendo i conti con problemi di vecchia data, quali la pressione deflazionistica, una demografia sfavorevole e il fatto che non esistano meccanismi condivisi per affrontare e risolvere le crisi
Per Ludwig Greven (Die Zeit) i referendum possono diventare un gioco pericoloso per due ragioni principali. Innanzitutto se l’affluenza è scarsa possono nascere dubbi sulla legittimità – in termini di volontà popolare – dell’esito delle urne. In secondo luogo, le forze politiche al governo possono facilmente manipolare le campagne referendarie a proprio vantaggio, come insegna il caso ungherese. Come spiega Matthew Qvontrup (Chatham House), i referendum possono rivelarsi delle armi a doppio taglio per un leader politico. La democrazia diretta dovrebbe essere una forma di “meccanismo di sicurezza” nei confronti dei rappresentanti eletti e non un grimaldello ideologico utile a perseguire fini politici.
Vie d’uscita dalla crisi europea. Su El Pais, Joaquin Estefania sostiene che per superare la disaffezione diffusa nei confronti dell’integrazione europea è necessario perseguire una Unione sociale al servizio dei cittadini, in grado di affrontare direttamente questioni come la disoccupazione giovanile e la precarietà del lavoro. In questa Unione dovrebbero trovare posto anche meccanismi automatici per contrastare le fasi avverse del ciclo economico, allo scopo di ridurre le disuguaglianze tra gli Stati membri.
Per Mark Copelovitch, Jeffry Frieden e Stefanie Walter (LSE EUROPP blog) ci sono quattro lezioni importanti da imparare dallo sviluppo della crisi europea negli ultimi sei anni. Innanzitutto, la crisi dell’euro è stata preceduta da una classica crisi di bilancia dei pagamenti, in cui i prestiti dai paesi del Nord hanno finanziato i consumi del Sud, creando le condizioni per una bolla. In secondo luogo, l’architettura dell’Unione Monetaria ha amplificato gli effetti della crisi, in un contesto in cui il dibattito sulle risposte alla crisi economica si intreccia con quello più generale sull’integrazione economica e politica dell’Unione. Inoltre, il progetto europeo sta facendo i conti con problemi di vecchia data, quali la pressione deflazionistica, una demografia sfavorevole e il fatto che non esistano meccanismi condivisi per affrontare e risolvere le crisi. Infine, si sconta la mancanza di un coordinamento fiscale e regolatorio tra i vari paesi. Non ci sono – secondo gli autori – ostacoli di natura tecnica alla soluzione di questi problemi, ma solo questioni di fattibilità politica.
Leggi anche:
The long reach of Orban’s referendum experiment – openDemocracy
The Deutsche Bank Frenzy and what it says about European banks – Bruegel
Saving Europe by reversing brexit – Social Europe