Un sacchetto di carta con un tramezzino al tonno e una banana. È stato questo il menu del buffet degli investitori che a Londra hanno partecipato alla tappa inglese del roadshow di Unicredit per l’aumento di capitale. Un giochino, visto che l’evento si teneva nel lussuosissimo Andaz Hotel. Ma quando un’azienda, tanto più se una banca, tanto più se italiana, va in giro a chiedere soldi, e tantissimi soldi, anche i simboli diventano importanti. Unicredit cammina come un elefante su un filo: in fondo ci può essere un approdo stabile. In mezzo una camminata senza rete. Se l’aumento di capitale da 13 miliardi fallisse, i problemi sarebbero sì degli azionisti e obbligazionisti della banca, ma la deflagrazione investirebbe tutto il sistema finanziario ed economico italiano. Come Mps, molto più di Mps, perché le dimensioni e l’impatto sistemico sono molto maggiori. In questa situazione delicata, le polemiche che risuonano sulla necessità di proteggere l’italianità dall’assalto degli stranieri sembrano del tutto dissonanti.
Se vogliamo prendere seriamente quel che ha scritto Cirino Pomicino al Fatto Quotidiano, tutta l’operazione non sarebbe che una grande manovra per permettere ai francesi di conquistare la finanza italiana. Lo stesso aumento di capitale non sarebbe una mossa per recuperare i requisiti patrimoniali scesi pericolosamente sotto la gestione di Federico Ghizzoni, che fu messo alla porta perché non avrebbe avuto la credibilità di chiedere un nuovo aumento di capitale, dopo i tre ravvicinati tra il 2009 e il 2012. No, sarebbe un modo per diluire i soci italiani, cioè le fondazioni (Cariverona, Crt, Carimonte, oltre ai privati come Caltagirone), far entrare i francesi, in particolare Société Générale, dentro Unicredit. Da lì farli salire in Mediobanca (dove Unicredit è primo azionista con l’8,56%), assieme a Vincent Bollorè (secondo azionista con l’8% rappresentato in cda dalla figlia Marie), per poi farli assalire Generali, che vede tra i soci principali la stessa Mediobanca e l’altra francese Axa. Ora, che questa manovra sia in teoria possibile non viene escluso, anche se al momento viene considerata molto lontana dalla realtà da chi sta seguendo da vicino la vicenda.
Ma il punto è un altro, anzi sono più d’uno. Primo: i soci italiani non hanno soldi e non si vede nessun altro privato in grado in Italia di affiancarli. Secondo: Unicredit è già una società con moltissimo capitale straniero, dagli emiratini di Aabar agli americani di BlackRock, i quali peraltro sembrano intenzionati a partecipare all’aumento confermando le proprie quote. Terzo: il sistema finanziario italiano ha un forte bisogno di capitale, che negli ultimi anni ha continuato a defluire dal Paese. Quale sarebbe l’alternativa di chi vuole resistere agli stranieri? L’ultimo (ma non per importanza) a proporre una qualche forma di resistenza è stato, con un’intervista al Correre della Sera, il ministro dello Sviluppo economico, Carlo Calenda. Il quale, però, se ha messo in luce i pericoli di un nazionalismo protezionista che si sta rafforzando a livello internazionale, non ha chiarito quale sia la soluzione. O meglio, ha parlato di una «rete fatta di grandi aziende, pubbliche e private, e di istituzioni finanziarie capaci di muoversi all’occorrenza in modo coordinato, tra loro e insieme al governo». Rete che «dobbiamo costruire». Difficile, in questa rete che agisce in modo coordinato, non pensare alla vecchia Mediobanca e al salotto buono di Enrico Cuccia e poi Vincenzo Maranghi. Ma il ministro, opportunamente, aggiunge: «Questo non vuol dire limitare gli spazi di mercato, ma essere in grado di reagire quando viene distorto o manipolato, anche con regole scritte ad hoc, per indebolire il nostro tessuto economico».
Alzare le barricati contro i francesi non ha senso per tre motivi: i soci italiani non hanno soldi e non si vede nessun altro privato in grado in Italia di affiancarli. Unicredit è già una società con moltissimo capitale straniero. E il sistema finanziario italiano ha un forte bisogno di capitale
Ecco, visto che non di manipolazioni di mercato ma di semplice operazione di mercato, stiamo parlando, è il caso di non danneggiarla. Perché è vero che per ora gli orientamenti degli investitori sono positivi, ma ci sono pur sempre molte attenzioni da avere. Le ha messe in fila il blog Finanze.net, parlando soprattutto di due aspetti. Il primo: il consorzio di banche posto a garanzia dell’aumento ha inserito, tra le clausole, la possibilità di ritirarsi in caso di condizioni di mercato particolarmente avverse (o meglio di rimanere “a condizioni in linea con la prassi di mercato per operazioni analoghe”). È la stessa condizione che ha portato il consorzio guidato da JpMorgan a sfilarsi dall’aumento di Mps, a dicembre, e prima ancora Unicredit a sfilarsi dall’aumento in Popolare di Vicenza. Il numero uno di Unicredit, Pierre Mustier, respinge con ragione ogni accostamento tra le due banche. Ma il clima finanziario potrebbe peggiorare notevolmente se qualcosa andasse storto (o ancora più storto) sul fronte di Mps. Come spiega Alessandro Milesi, consulente finanziario e curatore di Finanze.net, «il piano di salvataggio di Mps da parte dello Stato può andare avanti solo se la Bce continua a considerare, come ha fatto lo scorso giugno, Mps solvibile. Non dovesse più considerarla tale, si creerebbe un periodo molto delicato». È per questo, aggiunge, che probabilmente l’aumento di Unicredit sta andando a ritmi serrati, con conclusione prevista a febbraio. Meglio evitare ulteriori sovrapposizioni con il fronte senese.
C’è inoltre un secondo punto che Milesi invita a tenere d’occhio, riguardo a Unicredit: il prezzo, che dopo l’aumento potrebbe scendere, «di circa il 40%». Perché? Perché una volta effettuato l’aumento di capitale, il rapporto tra capitale e utile atteso sarebbe molto alto, pari a 20, superiore a banche simili per dimensioni in Europa. «30% di Fineco, più del 40% di Pekao, Poneer, le varie cessioni perfezionate o in cantiere valgono diremmo quattrocento milioni di utile netto all’anno – è il ragionamento di Milesi -. Supponendo che l’utile del 2016 definitivo si aggiri intorno ai due mliardi e corretto da queste cessioni a un miliardo e seicento milioni, sommando la capitalizzazione di oggi ai 13 miliardi di aumento arriveremmo a circa 30 miliardi di capitalizzazione. Questo porrebbe il titolo a circa venti volte gli utili 2017; Intesa dopo gli ingenti rialzi vende a 18, Santander a quindici Bnp a 11. Ma chi fa la fila per un aumento così? Oppure di quanto deve scendere il titolo per rientrare nella media di banche commerciali europee di simile qualità?».
Tra altri investitori, tuttavia, le attese sugli utili sono superiori. Spiega Francesco Castelli, responsabile Fixed Income di Banor Capital Ltd, che ha partecipato come investitore potenziale al roadshow di Londra: «Il piano industriale di Unicredit ci piace. È serio, perché è basato su cose concrete: non ci sono previsioni di forte crescita di ricavi, che oggi sarebbero irrealistiche. Inoltre i 13 miliardi di aumento serviranno a ripulire le sofferenze ma anche, per 1,5 miliardi, a rendere più efficienti i processi interni intervenendo in maniera incisiva sull’IT». Il titolo, aggiunge, non è detto che scenda, perché il piano industriale prevede che i ricavi salgano fino a 4,7 miliardi di euro. «Per gli investitori l’aumento di capitale è un’ottima opportunità di entrare a sconto in una banca che ha forte potenzialità. Non sono in grado di prevedere quello che succederà al prezzo del titolo. Immagino che nei primi mesi il prezzo potrà essere volatile, perché 13 miliardi sono tanti e ci vorrà tempo perché i mercati possano “digerirli”».
Analisti e investitori sono positivi sull’aumento di capitale. Ci sono però due aspetti da considerare: il consorzio di garanzia potrebbe sfilarsi se peggiorasse il clima di mercato, in caso di ulteriori problemi sul fronte Mps. E il prezzo di Unicredit dopo l’aumento potrebbe scendere
In questo interesse, aggiunge, pesa il fatto che «molti investitori internazionali oggi sono poco esposti rispetto al benchmark sulle banche italiane. Useranno l’aumento di Unicredit per riequilibrare il peso». Un altro punto a favore del piano è nel modo in cui viene visto il nuovo management. «Mustier è conosciuto ed è stimato. Gli investitori stanno apprezzando il fatto che gli incentivi per il management siano a lungo termine, tra il 2019 e il 2022. L’ad sta dimostrando di voler giocare la sua carriera su questo terreno e in un mondo nuovo, in cui conta il commitment di lungo periodo».
Chi conosce bene Unicredit parla di grandi cambiamenti già avvenuti all’interno della banca, con una girandola di dirigenti che, pur senza defestrazioni, ha già cambiato la mappa del potere. È probabile, se non sicuro, che dopo l’aumento e con la composizione del nuovo cda (che scenderà da 15 a 13 membri) ci sarà un “reshuffle” del board che porterà persone vicine a Mustier e a un suo rafforzamento del potere. Sarà, probabilmente, una banca ancora più francese. Ma più che tentare di bloccare la scalata, la strada più opportuna sarebbe quella di chiedere parità di condizioni per le aziende italiane in Francia. Così la pensa Andrea Goldstein, managing director di Nomisma. «La questione della nazionalità delle imprese se presa seriamente ha tutta la legittimità per essere, non deve essere un tabù – ha detto a margine del convegno The World in 2017, organizzato dalla società -. Dobbiamo però allargare lo sguardo all’Europa. Non dobbiamo ragionare di “italianità” ma casomai di “europeicità” delle imprese, perché il nostro destino è l’Europa. Sarebbe quindi molto strano bloccare qualche tipo di takeover all‘interno dell’Unione europea. Sappiamo però tutti che la questione, più che la sola Unicredit, può investire Generali. Sarebbe strano che Axa si comprasse Generali e che Fincantieri non si potesse comprare Stx France. Oppure che il tipo di misure che venissero chieste a Fincantieri fossero più onerose di quelle chieste ad Axa. Ci sono regole e bisogna essere politicamente forti. Penso che i ministri Calenda e Padoan sono stati abbastanze seri con le loro controparti».