I pugni in tasca, La cina è vicina, Nel nome del padre, Sbatti il mostro in prima pagina, L’ora di religione, Buongiorno, notte, da ultimo Fa bei sogni: alternando i toni della commedia — quando non addirittura quelli della satira — con quelli del dramma sociale e politico, Marco Bellocchio, classe 1939, è uno dei più grandi maestri del cinema italiano, uno di quelli che ci ha accompagnato a partire dalla seconda metà del Novecento raccontando la traiettoria dell’Italia dagli anni di piombo alla fine del benessere.
«Siamo sempre tutti figli del nostro tempo, è normale, e io a vent’anni avevo intorno un’Italia profondamente diversa da quella di oggi». Bellocchio parla piano, prendendosi il tempo per misurare le parole. D’altronde è domenica, sul lago di Locarno splende un bel sole e l’aria e mite e si vede che la tre giorni de L’immagine e la parola, organizzata nell’ambito del Locarno Festival, lo mette a suo agio: «Un artista», continua, «che sia uno scrittore, un regista, un pittore, fa riferimento alle proprie esperienze, al rapporto con gli altri, alla società in cui cresce e il cinema italiano chiaramente non fa eccezione. Quando avevo 20 anni c’erano Visconti, Rossellini Fellini, ma ora quel cinema non si può più fare. Quell’Italia non c’è più».
Esiste un nuovo cinema italiano?
Il “nuovo cinema italiano”, se vogliamo chiamarlo così, esiste, certo, ma mi pare un cinema prima di tutto molto diversificato, che risponde a tutta a una serie di drammi e tragedie sociali di un tipo che ai miei tempi non esisteva: l’immigrazione, il precariato, per esempio. E risponde sia con il cinema d’autore, penso a un Virzì, sia con una nuova attenzione al cinema di genere.
E la commedia, il genere principe dell’Italia del Novecento?
La commedia è un genere molto particolare, che si trasforma continuamente perché si deve applicare a una vita che cambia continuamente e molto in profondità e che, per esempio, al giorno d’oggi è molto diversa da quella dell’italiano medio dei tempi di Comencini, Monicelli o Risi.
Funziona ancora come all’epoca?
Certo, è ancora una presenza ancora forte, soprattutto in termini di spettatori e di incassi. Però dal punto di vista del genere, direi che è tutto molto cambiato e diciamo pure che quella che è passata alla storia come Commedia all’italiana non si può più fare perché, banalmente, non c’è più quell’Italia.
Per esempio?
Prendi la satira. Quarant’anni fa la satira era amara contro il potere, contro il mondo politico, perché all’epoca — stiamo parlando degli anni Settanta più o meno — la politica, l’ideologia, il partito, erano ancora presenze quotidiane e importanti nella vita della gente. Adesso, andare contro la politica e contro il sistema, almeno dal punto di vista della comicità e della satira mi sembra più assente.
Quali film citerebbe tra le migliori novità di questi anni?
Lo chiamavano Jeeg Robot è una grandissima novità ed è ancora più interessante perché ha avuto un ottimo riscontro in sala, e anche dalla critica. Stessa cosa per Non essere cattivo, Veloce come il vento o Anime nere. Certo, non hanno ancora le dimensioni di richiamo come le commedie popolari o come i film dei comici, che occupano ancora uno spazio maggioritario nel cinema italiano, soprattutto a Natale.
Eppure negli ultimi due anni i cinpanettoni ha subito un brusco rallentamento, e anche i film dei comici. Mereghetti su Corriere ha stroncato pesantemente tutto il genere. Lei è d’accordo?
Sì, sono calati, però continuano a farli. Se vogliamo c’è una attenzione diversa da parte del mondo del cinema, basta vedere le candidatura ai David, dove quello che stiamo chiamando ora Nuovo cinema italiano è ben rappresentato. Certo, quella del David è la rappresentazione di un gusto che non è esattamente quello del pubblico, di un gusto più raffinato e attento alle novità. Le commedie sono del tutto assenti o quasi. Però, ripeto, sono ancora le commedie che fanno aumentare gli indici della presenza in sala in Italia.
All’interno della comicità italiana cinematografica, se ci sono state tante delusioni, c’è però stata anche un grande exploit, e sto pensando a Checco Zalone.
Sì, è vero. L’anno scorso il cinema italiano ha segnato un avanzamento grazie quasi solo al fenomeno Zalone, che ha portato centinaia di migliaia di persone in sala. Ma Checco Zalone non lo metterei nella categoria delle commedie di una volta, né tra i film classici dei comici.
Perché?
Perché l’unico che ha saputo cogliere il cambiamento in atto nella società, questa poetica comica del “posto fisso” è stata geniale. Se poi aggiungi che Zalone ha una capacità straordinaria di gestire la sua presenza pubblica, tanto da apparire soltanto in prossimità dell’uscita dei suoi film, ogni due o tre anni, insomma, tutto ciò gli sta permettendo di non bruciarsi e di essere una voce molto potente di una nuova comicità italiana.
Cambiamo argomento, cosa ne pensa delle serie tv?
Fino a pochi anni fa c’era una enorme distanza tra i film e la televisione. Adesso, anche sulla esperienza molto penetrante dei seriali americani, anche in Italia stanno cercando di ridurre questa distanza e quindi la serialità televisiva diventa certamente più attraente di prima come formato. Ora c’è Sky che magari non ti darà carta bianca e libertà assoluta, ma per quanto riguarda temi e linguaggi sicuramente è molto più libera di Rai e Mediaset.
Le è venuta voglia di girarne una?
Ma sai, il problema della serialità, dal punto di vista di chi il cinema lo fa, non dello spettatore, resta che la sceneggiatura, lo scrivere e l’immaginare sono la parte predominante dell’autorialità, e che i tempi sono molto più veloci, scanditi, spietati. Io sono ancora di una generazione che viene da film in cui ho difeso dei tempi che ora sono sempre più difficili da difendere.
Che differenza c’è?
Nel cinema è ancora possibile scoprire delle cose mentre le giri, cambiare in corsa, lasciare un po’ della creatività al momento del girare. Ti devi ben preparare, ma lo sai che mentre giravi un film hai tempo di indugiare, rifare, ritornare su alcune scelte, modificare in corsa. Questo, soprattutto nelle serie, è sempre meno possibile. Il ritmo è altissimo, come pure il minutaggio. In ogni caso ci sono degli esempi di serialità che mi è capitato di vedere in cui la qualità è tanto alta che la differenza con il cinema è praticamente inesistente.
Le viene in mente qualche esempio?
Tra quelle che ho visto recentemente mi viene in mente la prima serie di True Detective, o Fargo. MI dicono che lavorano su ritmi concitatissimi, ma probabilmente hanno mezzi economici e creativi molto potenti, perché effettivamente la qualità è altissima.
E il pubblico, com’è cambiato rispetto a qualche anno fa?
Ci sono sempre più grandissime eccezioni che attraggono il pubblico, mi viene in mente ancora Zalone, o Perfetti sconosciuti, che hanno saputo attrarre con intelligenza il pubblico in sala. Ma in generale l’attenzione del pubblico per il cosiddetto cinema d’autore, come si diceva una volta, mi pare si sia molto abbassata. Anche negli appassionati di cinema.
Secondo lei perché?
È la vita stessa è diventata molto più affollata di distrazioni e l’andare al cinema ne risente. Io stesso sto perdendo molti film in sala che dovrò recuperare in televisione. Diciamo che il cinema non ha più quella attrattiva supplementare, quell’appeal che lo rendeva unico come quando io avevo vent’anni. È sempre più faticoso e su film anche molto belli si vede lo scarto. Anche perché distributori e produttori devono fare i conti con le cifre del botteghino e se prima c’era un film assistito, aiutato dallo Stato, ora no. Ora ci dev’essere sempre di più una corrispondenza tra quello che spendi e quello che fai incassare. E poi non ci sono nemmeno più fenomeni, anche sociali, che riescono a coinvolgere l’Italia intera e che sapevi che entro un paio d’anni sarebbero stati affrontati al cinema. Ormai anche quella realtà viene esaurita dalla televisione.