Quando Borges conobbe Valderrama

Jorge Luis Borges ricorda il suo incontro con l'iconico calciatore colombiano e la sua prodigiosa esistenza

Lo ricordo (io non ho il diritto di pronunciare questo verbo sacro; un uomo solo, sulla terra, ebbe questo diritto, e quest’uomo è morto), e ricordo il pallone consumato che teneva sotto la suola, vedendolo come nessuno vide mai un pallone, né mai lo vedrà, anche se l’avrà guardato dal crepuscolo del giorno a quello della notte, per una vita intera. Ricordo il suo volto taciturno dai tratti rotondi, singolarmente remoto sotto i capelli biondi e i baffi neri. Ricordo (credo) i suoi piedi piccoli e arrotondati; ricordo attorno a questi piedi un paio di scarpini lucidi, sempre allacciati in modo impeccabile; ricordo a una finestra della sua casa una bandiera gialla della Colombia, con un alone di vino rosso. Ricordo chiaramente la sua voce; la voce posata, nasale e un poco lamentosa. Non l’ho visto più di tre volte.

Il mio primo ricordo di Valderrama è assai netto. Lo vidi in una notte di giugno del 1990. Camminavo con mio cugino Ermanno nei campi tra Rigosa e l’aeroporto. Cantavamo una vecchia canzone che parlava della terra da coltivare, dei cartelloni pubblicitari e di una donna frivola, ma quel canto non era la sola ragione della mia felicità. Dopo una giornata soffocante, una enorme tempesta colore ardesia aveva oscurato il cielo. L’incitava il vento da nord, già impazzivano gli alberi; io temevo (e speravo) che lo scatenarsi dell’acqua ci sorprendesse ancora lontani da casa. Corremmo una specie di corsa con la tempesta. Entrammo in una strada che affondava tra due altissime file di cespugli. Le nuvole avevano coperto la luna, circondandoci di oscurità. Udii alle mie spalle passi rapidi, quasi segreti; mi girai e vidi un ragazzo che correva in mezzo ai campi. Ricordo le sue scarpe da ginnastica nuove di zecca; ricordo, contro la già sterminata nuvolaglia, i suoi capelli biondi e illuminati e il suo volto duro. Ermanno gli gridò, imprevedutamente: “Che ore sono, pibe?”. Senza consultare il cielo, senza fermarsi, l’altro rispose: “Mancano quattro minuti a mezzanotte, ragazzo”. La voce era acuta, burlesca. Mio cugino, cui stimolavo (credo) un certo orgoglio locale, mi disse che il ragazzo della stradetta era Carlos Valderrama, celebre per le sue gesta in campo e per alcune voci strane che circolavano da giorni tra la gente del paese: correva da solo nella notte e sapeva sempre che ora era senza guardare l’orologio, dicevano.

Ricordo (credo) i suoi piedi piccoli e arrotondati; ricordo attorno a questi piedi un paio di scarpini lucidi, sempre allacciati in modo impeccabile; ricordo a una finestra della sua casa una bandiera gialla della Colombia, con un alone di vino rosso. Ricordo chiaramente la sua voce; la voce posata, nasale e un poco lamentosa. Non l’ho visto più di tre volte.

Le estati del 91 e del 92 le passammo altrove, in una multiproprietà affacciata su una strada statale in provincia di Catanzaro. Nel 1993, infine, ci trasferimmo tutti a Breckenridge, negli Stati Uniti, e qualche anno dopo arrivò nello stato del Colorado anche Valderrama, per giocare nella mediocre squadra di calcio di Denver. Nel 2001 un terribile infortunio lo costrinse a letto per mesi, in una vecchia casa di legno che si trovava proprio nella nostra piccola cittadina. Mi dissero che non si muoveva dalla branda, gli occhi fissi su un albero di noce in giardino, o su una tela di ragno. Verso sera, lasciava che l’avvicinassero alla finestra. Spingeva la superbia al punto di simulare che l’entrata che lo aveva azzoppato fosse stata benefica. Due volte lo vidi dietro le assi di legno della sua casa, che grossamente sottolineavano la sua condizione di eterno prigioniero; una volta, immobile, con gli occhi chiusi; un’altra, sempre immobile, assorto nella contemplazione d’un odoroso rametto di santonina.

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