Brexit: sarà la Merkel a condurre i negoziati con il Regno Unito?

Molti analisti sostengono che le trattative tra UK e Unione Europea saranno a guida tedesca, altri invece pensano che l'obiettivo primo della Germania resti una forte unità politica del continente. In ogni caso, il Regno Unito deve ancora versare tra i 26 ai 60 milioni di euro al bilancio Ue

Nell’opinione di molti analisti economici e politici il prosieguo delle trattative tra il Regno Unito e l’UE sarà a “trazione tedesca”: in Germania infatti il settore industriale avrebbe molti interessi a mantenere buoni rapporti con il Regno Unito e, di conseguenza, a sostenere attivamente un processo di soft negotiations con Londra. Di opinione contraria Katinka Barysch di Chatham House, secondo cui sarebbe erroneo attribuire un ruolo così rilevante alla Germania. La Brexit sarebbe solo una delle numerose preoccupazioni dell’esecutivo tedesco, attualmente più concentrato sulle elezioni di settembre. Inoltre, continua Barysch, agli occhi della Cancelliera tedesca l’obiettivo politico di un’ Unione europea forte e unita resta di primaria importanza.

Secondo Simon Hix (EUROPPLSE) ci sono margini per un nuovo accordo bilaterale tra Regno Unito e Unione Europea per garantire alcuni diritti e libertà ai cittadini di entrambe le parti che vivono all’estero: l’autore auspica la definizione di un accordo di libero scambio “completo e profondo” che copra beni e servizi e, cosa non meno importante, afferma che il problema più pressante per il futuro a breve termine ha a che fare con la quantità di denaro che il Regno Unito deve ancora versare al bilancio dell’UE

Sull’Independent, John Rentoul si concentra sulla classe politica britannica: recentemente il Primo ministro Theresa May ha dichiarato che “la libertà di circolazione delle persone potrebbe continuare per un periodo di transizione dopo il 2019”. L’autore si dice sorpreso della mancanza di reazioni da parte dei Tory sostenitori della hard Brexit, come Liam Fox e Steve Baker: secondo Rentoul, invocare l’articolo 50 ha permesso a Theresa May di smarcarsi dall’ala euroscettica del suo partito.

Secondo Simon Hix (EUROPPLSE) ci sono margini per un nuovo accordo bilaterale tra Regno Unito e Unione Europea per garantire alcuni diritti e libertà ai cittadini di entrambe le parti che vivono all’estero: l’autore auspica la definizione di un accordo di libero scambio “completo e profondo” che copra beni e servizi e, cosa non meno importante, afferma che il problema più pressante per il futuro a breve termine ha a che fare con la quantità di denaro che il Regno Unito deve ancora versare al bilancio dell’UE. L’autore, tracciato il bilancio tra i contrapposti interessi in gioco, sostiene che il Regno Unito dovrebbe contribuire con una somma compresa tra i 25 e i 60 miliardi di euro.

È diversa l’opinione di Jan Zielonka, pubblicata sul blog OxPol, secondo cui i negoziati per l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea saranno pieni di ostacoli: la Brexit non avrà effetto solo su quei cittadini che costituiscono una rete di professionisti a livello europeo, ma su tutti i cittadini nel continente, aggiungendo poi che “non è facile districarsi tra le 20.000 leggi e regolamentazioni dell’acquis comunitario”. Secondo il politologo polacco inoltre è sbagliato ritenere che l’uscita del Regno Unito dall’UE possa semplificare il processo verso un’ Unione per la Difesa Comune o verso il raggiungimento di norme finanziarie più efficienti a livello comunitario.

“Le aziende sfruttano i progressi nell’ambito dei software e delle scienze comportamentali per attuare in realtà uno sfruttamento vecchio stile dei lavoratori”, sulla base di una regolamentazione ormai vecchia del mercato del lavoro USA

La redazione del The New York Times sostiene che l’utopia di autoimprenditorialità inseguita nella gig economy celi piuttosto una realtà diversa, basata sulla “manipolazione del lavoratore”: secondo gli autori infatti, i dipendenti del settore sono costretti a molte ore di lavoro a fronte di salari bassi. “Le aziende sfruttano i progressi nell’ambito dei software e delle scienze comportamentali per attuare in realtà uno sfruttamento vecchio stile dei lavoratori”, sulla base di una regolamentazione ormai vecchia del mercato del lavoro USA. Tuttavia, alcune piccole aziende che operano nel settore hanno recentemente implementato misure mirate a un maggior rispetto dei lavoratori, sperimentando come i cambiamenti organizzativi possano avere ricadute positive sulla qualità dei servizi offerti.

Su openDemocracy, Tom Hunt definisce le preoccupazioni attuali legate alla gig economy come “vecchi problemi con nuovi nomi” e che, quando si tratta di spiegare l’indebolimento dei diritti legati al mondo del lavoro, tutto ruota intorno alla forza dirompente dello sviluppo tecnologico.

Sempre su openDemocracy, Alice Martin sostiene che il vero impatto sul lavoro non deriva dall’innovazione tecnologica di per sé – dai robot, ad esempio. Lo sviluppo tecnologico rende possibile l’utilizzo di algoritmi nell’ambito delle risorse umane e forme avanzate di sorveglianza sui dipendenti”, in un contesto di eccesso di offerta di lavoro. In altre parole, il punto cruciale è che l’economia “on demand” implica una competizione sempre maggiore tra la manodopera a basso costo. Nel tentativo di definire nuovi metodi affinché forme di azione collettiva risultino efficace, Martin invita i dipendenti di aziende on demand ad unire le forze con quanti sono alla ricerca di un lavoro.

Traduzione dall’originale a cura di Veronica Langiu

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