Nell’infinita odissea dell’Alitalia nelle ultime settimane si è scritto un nuovo capitolo. Prima che si arrivasse all’ultimo compromesso il piano dell’azienda era quello di procedere a 2 mila esuberi e un taglio del 30% dei salari. Ebbene, da più fonti era emerso come il maggiore problema per i sindacati non fossero gli esuberi, ma proprio le decurtazioni degli stipendi.
Non solo perché generosissimi ammortizzatori sociali pagati dai contribuenti avrebbero accompagnato le uscite dei lavoratori, ma proprio per una tendenza tipicamente ideologica e culturale che attraversa sindacati, governo, opinione pubblica, nel privilegiare i livelli di stipendio invece dei tassi di occupazione, nonostante i secondi a differenza dei primi siano effettivamente tra i più bassi d’Europa.
Un altro esempio giunge dalla vicenda degli aumenti salariali agli statali. Dopo anni di insistenza saranno stanziati 2,8 miliardi per i rinnovi dei contratti, cui potrebbero seguire 2,3 miliardi nel 2019 e 4,6 nel 2020. Tutto questo nonostante secondo dati OCSE gli stipendi pubblici italiani a livello orario pure dopo anni di blocco sono il doppio di quelli privati, allo stesso livello di quelli tedeschi.
Certamente non è solo ideologia e cultura, alla base di tutto c’è anche il tipico individualismo italico, lo stesso che porta i detentori di un salario a considerare in primis le proprie esigenze rispetto a quelle dell’economia nazionale e delle generazioni a seguire, ma questo va a braccetto con quella interpretazione mediterranea della teoria keynesiana per cui tutto dipende e nasce dalla mitica domanda.
Dall’acquisto di beni e servizi, qualunque essi siano, comunque questi siano prodotti, scaturirebbe automaticamente la crescita e l’occupazione in base a questa corrente di pensiero. Che è ben rappresentata in Italia a destra, sinistra, e tra chi non è “nè di destra nè di sinistra”.
Dal “mettere più soldi nelle tasche degli italiani” di berlusconiana memoria agli 80 euro renziani il leitmotiv è quello.
Eppure dati alla mano non pare che siano stati domanda e consumi ad avere affondato la nostra crescita e a provocare una ripresa stentata. C’è un’altra componente, normalmente ignorata, quella della formazione di capitale, ovvero degli investimenti.
Certamente in entrambi i casi se confrontiamo il loro valore oggi rispetto al 2005, come fa Eurostat, l’Italia è tra gli ultimi in Europa, con i consumi al 98% del livello di allora e la formazione di capitale al 77,9%.
Tuttavia, se osserviamo quanto questi rappresentino del prodotto interno lordo del Paese vediamo che nel caso dei consumi privati questi ammontano a ben il 60% del PIL, decisamente sopra la media europea, mentre la formazione di capitale, gli investimenti, sono solo il 17,2%, una delle percentuali più basse in Europa.
Investimenti e consumi privati sono due componenti importantissime del PIL stesso, quindi della crescita, assieme a spesa pubblica ed esportazioni nette. Di queste ultime sappiamo come ci abbiano salvato da un default o da una dura austerità nei momenti più difficili, ma abbiamo assolutamente bisogno che anche gli altri fattori riprendano a correre.
E gli investimenti non lo stanno facendo.
Se guardiamo ai dati a partire, questa volta, dall’inizio del 2008, ovvero dai primi momenti della recessione, osserviamo la caduta del PIL, che, a differenza che in Spagna per esempio, nel nostro Paese rimane a un livello decisamente più basso che allora, -7,4%, dopo aver toccato un -9,5%.
Ebbene, distinguendo tra le due componenti dei consumi e degli investimenti appare evidente che nel caso dei primi non siamo quelli che se la sono cavata peggio tra i principali Paesi della zona euro. La Spagna ancora oggi soffre un dislivello rispetto ai valori del 2008 superiore ai nostri e ha toccato un minimo del -14,3% nel 2013 doppio di quello italiano.
È nella formazione di capitale che invece stentiamo a riprenderci, dove Spagna ci ha superato nella corsa al recupero dei livelli pre-crisi, che appaiono comunque lontani.
La differenza negli approcci dei 4 maggiori Paesi si vede appunto nel confronto degli andamenti contemporanei di PIL, consumi, formazione di capitale (investimenti).
In Italia i consumi privati sono quelli che sono cresciuti di più, o calati di meno, rispetto sia al reddito nazionale che soprattutto gli investimenti. Come il nostro Paese solo la Francia, guarda caso.
In Germania e in Spagna invece i consumi non hanno tenuto lo stesso passo del PIL, in un certo senso c’è stata meno attenzione alla domanda? Può essere, ma questi due Paesi ora vedono una crescita di reddito ed occupazione certamente superiore a quella italiana e francese.
Evidentemente la domanda non basta, un aumento artificiale dei salari, deciso a tavolino, non può bastare, se dietro non vi sono investimenti privati in grado di innalzare la produttività e la competitività.
Investimenti in asset, come il termine tecnico, formazione di capitale, suggerisce, in macchinari, infrastrutture, ricerca. Da non confondersi con quelli che in acrobazie lessicali vengono chiamati dai media e dai politici allo stesso modo, investimenti, ma sono solo pura e semplice spesa.
Dovremo convincerci di un’evidenza che forse altrove appare più chiara, che la domanda, e quindi l’occupazione, è in gran parte una conseguenza della crescita, non un valore da poter decidere a tavolino, magari in una legge di stabilità o in un DEF, da creare dal nulla.
I tentativi ricorrenti di provocare la crescita partendo dalla pura spesa si sono tradotti, e si stanno traducendo, in una cosa semplice, minori consumi per chi viene dopo, tramite la trappola del debito che pagheremo domani, mentre oggi ci illudiamo con la strada più facile.