Mark Blyth: «Per salvare l’Europa serve il nazionalismo, ma responsabile»

Intervista all'Eastman Professor in Politica Economica presso la Brown University sul futuro politico dell'Europa: la socialdemocrazia non è arrivata alla fine, mentre le forze populiste hanno raggiunto il loro limite "naturale". Ma la vera sfida è la responsabilizzazione del nazionalismo

Mark Blyth è Eastman Professor in Politica Economica presso la Brown University (USA). Nel corso delle sue attività di ricerca si è occupato del ruolo delle “idee” nei sistemi politici, dell’Economia politica europea, e del funzionamento dei sistemi marco-economici. Blyth è autore di “Great Transformations: Economic Ideas and Institutional Change in Twentieth Century” (Cambridge University press, 2002), “Austerity: The History of a Dangerous Ideasi” (Oxford Unviersity Press, 2013), e co-autore, insieme a Matthias Matthijs, di The Future of the Euro (Oxford University Press, 2015).

Vorrei iniziare questa conversazione con una domanda molto semplice: guarda all’Europa con ottimismo o pessimismo?

Per la prima volta dopo molto tempo, sono cautamente ottimista. In primo luogo, credo che le forze populiste abbiano raggiunto un limite naturale di consenso. Lo dimostrano le elezioni olandesi. E credo che sia difficile che Marine Le Pen possa trionfare al secondo turno delle Presidenziali francesi. Inoltre, ci sono tracce di inflazione, un buon segnale considerando il monte debiti europeo. In terzo luogo, c’è la crescita – è debole, ma presente. Nel frattempo, Oltreoceano, Trump sta dando una dimostrazione esemplare di quale sia la strada da evitare. Infine, c’è la speranza “Martin Schulz” – chi avrebbe mai detto che un ex-libraio potesse portare il Partito socialdemocratico fino al 30 per cento? Tutti questi fenomeni indicano che non ci troviamo necessariamente di fronte alla fine della Socialdemocrazia – soprattutto se le forze politiche che si definiscono tali, non sostengono ulteriormente un’Europa neoliberale. Serve un segnale che indichi un cambio di direzione.

Sembrerebbe tutto rose e fiori …

C’è un rovescio della medaglia. L’inflazione che stiamo osservando è legata all’aumento dei prezzi nel settore energetico. In altri termini: si tratta di un fenomeno transitorio. Molto probabilmente si tornerà presto a un tasso sotto all’1 per cento, se non addirittura a una deflazione nella periferia dell’Europa, da qui a un anno. Se è vero che il tasso di occupazione aumenta, non possiamo nascondere che si tratta di impieghi part-time, e di occupazioni scarsamente regolamentate, precarie. In sintesi, le giovani generazioni, le cui competenze sono state colpite dalla crisi, sono incapaci di trovare lavori che possano accompagnarle attraverso le parte più importante delle loro vite. Ciò implica una capacità inferiore di consumo e di abbattimento del debito pregresso, sia a livello privato che pubblico. Tenendo in considerazione l’inflazione, stiamo assistendo a un tasso di crescita reale dell’1 per cento: è troppo poco per poter cambiare i rapporti di forza. Insomma, esiste una narrazione diversa degli stessi fenomeni citati sopra, per cui i principali problemi che affliggono la maggioranza della popolazione europea, non sono cambiati affatto. Se ciò è vero, allo dovremmo restare pessimisti.

«Per molto tempo, centrosinistra e centrodestra, hanno creduto che la globalizzazione portasse benefici a tutti. E durante gli ultimi 15 anni hanno semplicemente ignorato la crescita delle disuguaglianze. È normale dunque che, politicamente, queste forze vengano ora “punite”: le basi elettorali tradizionali si stanno spostando ed è difficile che tornino»

In ogni caso, sembrerebbe che, per il 2017 europeo, lei non si aspetti quella “tempesta perfetta” che molti hanno descritto come scenario probabile …

Le elezioni francesi possono ancora naufragare. Il Front National (FN) è un caso diverso da tutti gli altri esempi di populismo di destra europei. A differenza dell’elettorato della Brexit e di Trump – costituito soprattutto da “anziani” -, in Francia, il sostegno a Le Pen è variegato. Il FN ha una presa sui giovani, sconosciuta agli altri partiti populisti. Le Pen combina una retorica anti-establishment – come non capire del resto il successo di questa ultima, visti i recenti scandali – con un programma economico di sinistra. Due fattori che fanno scomparire, agli occhi degli elettori, il problema del razzismo.

Crede che Le Pen possa arrivare al secondo turno?

Sì. L’ipotesi per cui tutti i partiti del sistema partitico francese, dai comunisti alla destra cattolica, dovrebbero sostenere Emmanuel Macron – un candidato che non ha dietro di sé né un partito, né un movimento – soltanto al fine di fermare le forze che vogliono un cambiamento radicale, non sta in piedi. A dire il vero, tutto ciò somiglia molto alla dinamica che ha portato al successo della Brexit; a maggior ragione, se si guarda all’arroganza epistemica degli esperti che si stanno esprimendo sul tema. In ogni caso, sarà il tasso di partecipazione a decidere il risultato elettorale. Inoltre, non è detto che al secondo turno, comunisti e cattolici sosterranno Macron.

Dall’altra parte del Reno, Martin Schulz, viene descritto come una ventata di aria fresca: rappresenta qualcuno che non è compromesso a livello di establishment e che, allo stesso tempo, potrebbe ravvivare un’Europa socialdemocratica, al fine di catturare i voti dell’elettorato che, nel frattempo, si è spostato a destra. Cosa ne pensa?

Per molto tempo, centrosinistra e centrodestra, hanno creduto che la globalizzazione portasse benefici a tutti. E durante gli ultimi 15 anni hanno semplicemente ignorato la crescita delle disuguaglianze. È normale dunque che, politicamente, queste forze vengano ora “punite”: le basi elettorali tradizionali si stanno spostando ed è difficile che tornino. Quando la sinistra si sposta al centro dello spettro politico può ottenere grandi vittorie nel breve periodo, a costo di una perdita di consensi drammatica e costante nel lungo periodo – lo dimostrano i casi di Blair, nel Regno Unito, e Schroeder, in Germania. In altri termini: la base fidelizzata nel passato comincia a “odiare” la sinistra e ad abbandonarla, mentre gli elettori che non si esprimono attraverso un voto ideologico – ma che hanno favorito il successo di un programma più centrista – sono pronti ad andare altrove alla prima occasione.

E Schulz non rappresenta un argine a questo fenomeno?

Schulz, per il momento, sembra in grado di frenare questa logica: parla di ciò “che non va” nel Paese in maniera comprensibile ai più. Inoltre, sta dimostrando che la SPD non deve necessariamente assumere un profilo basso, da “partito facilitatore degli interessi del capitale globale”.

Potrebbe essere più preciso?

Lo scorso settembre sono stato invitato al Ministero dell’Economia e dell’Energia tedesco, al tempo, guidato dal socialdemocratico, Sigmar Gabriel. Durante la visita, ho chiesto di Gabriel, ma mi è stato detto che era in Vallonia, per frenare l’opposizione al Trattato Transatlantico con il Canada (CETA). Insomma, il Segretario generale della SPD era stato inviato in Belgio per dire alla sinistra di accettare un accordo che impedisce alle istituzioni pubbliche di determinare regolamentazioni in materia ambientale. Da questo punto di vista, credo che Schulz stia cambiando la rotta.

«Invece di insistere verso una maggiore integrazione, dovremmo prendere atto del fatto che, dopo 30 anni di politiche che hanno spinto verso l’“omogeneità” e la prominenza del mercato, esiste una resilienza, una risposta, del livello nazionale. Ciò avviene anche nei Paesi storicamente “pro-Europa”. La domanda diventa quindi: come si può trasformare questo fenomeno in un nazionalismo responsabile?»

Se si vuole salvare la sinistra e l’Europa, si devono spostare le politiche progressiste al livello sovranazionale, per instaurare una redistribuzione, tra Stati, o tra cittadini europei. L’alternativa è data, da un lato, da un ritorno al nazionalismo; dall’altro, dallo status quo fatto di politiche ordoliberali. È una tesi che la convince?

Credo che il modo di porre il problema, implichi, di per sé, una risposta poco realistica. La verità è che, al momento, c’è poca voglia di “maggiore integrazione”. L’Unione europea è stata concepita come un progetto del ventesimo – se non del diciannovesimo – secolo. L’idea originaria si può riassumere nella seguente maniera: creare una struttura gerarchica che tenga sotto controllo l’anarchia tra Stati sul Continente e che, di conseguenza, spinga per una sempre maggiore integrazione a livello sovranazionale. Tolta la problematica del deficit democratico che un tale progetto comporta, esistono altri problemi legati all’efficienza: in pratica, questo processo depriva i centri nevralgici della struttura(istituzioni europee) delle informazioni cruciali che risiedono a livello nazionale. Allo stesso tempo, si cerca di aumentare il numero di Paesi da far aderire all’Unione. E la conseguenza è un sistema pesante e vulnerabile. Per citare Nassim Taleb, servono elementi “ridondanti”, che possano arginare la “fragilità” del sistema. In altri termini, si dovrebbero creare sistemi “di federazione orizzontali”, piuttosto che un sistema verticale, gerarchico che miri all’uniformità

Il suo discorso rimane ambiguo: crede a una maggiore integrazione, o no?

Invece di insistere verso una maggiore integrazione, dovremmo prendere atto del fatto che, dopo 30 anni di politiche che hanno spinto verso l’“omogeneità” e la prominenza del mercato, esiste una resilienza, una risposta, del livello nazionale. Ciò avviene anche nei Paesi storicamente “pro-Europa”. La domanda diventa quindi: come si può trasformare questo fenomeno in un nazionalismo responsabile?

Un’alternativa alla retorica del “prendiamo il controllo” …

È molto facile mettere mano a questo tipo di discorso, perché a sinistra non c’è più un progetto per cui valga la pena “battersi”; e perché, su molte questioni, la sinistra è stata “naif”: il discorso dell’efficienza, dell’utilità del Mercato Unico, della bontà dei “confini aperti”. Sono tutti concetti che hanno un senso per persone con alti livelli di educazione, che parlano più lingue, che viaggiano e che hanno le competenze per sfruttare questo sistema integrato. Ma, la maggior parte dei cittadini non vedono un senso in tutto questo. Quindi, o si procede oltre l’ordine “gerarchico” e si comincia a pensare in funzione di un sistema più eterogeneo che mantenga vivo l’idea di Europa, o siamo al capolinea.

Non crede che il ritorno della logica nazionale rappresenti anche un fallimento intellettuale e politico della leadership europea, che non è stata in grado di spiegare ai cittadini il valore dell’integrazione?

In linea di massima credo che il motore del populismo sia soprattutto dato dai rapporti economici. Ma, dal momento in cui il populismo basa il proprio successo su una componente cultural-identitaria, non si può semplicemente tornare indietro nel tempo e aggiustare le cose.

Cosa intende dire?

Negli anni ’80, c’è stato un momento storico – dopo l’approvazione dell’Atto Unico Europeo – e prima del lancio dell’Euro, in cui sarebbe stato possibile condividere la “sovranità” al fine di creare un’Unione sociale europea. Questo strumento avrebbe aiutato ad assorbire gli shock economici; ma non solo: avrebbe permesso, a livello di cittadinanza, la condivisione di sorta di “cosa comune”, una vera e propria “identità”. Purtroppo, si è insistito su politiche economiche deflazionarie per un decennio, al fine di far rientrare tutti i Paesi membri all’interno di una gabbia monetaria. Non si può dire che sia stato un successo e, allo stesso tempo, non si può far finta che tutto ciò non sia mai avvenuto. Per tornare alla leadership, è un processo che va oltre l’abilità dei singoli leader. Il punto è che abbiamo creato un mondo in cui una maggiore integrazione non rappresenta una soluzione concreta, o almeno, non una prospettiva sufficiente. Serve un pensiero alternativo, “un piano B”.

In un certo senso però, sta dicendo che se le forze socialdemocratiche vogliono vincere la battaglia contro il populismo di destra, sono costrette a rincorrere il programma di quest’ultimo.

In effetti, si tratta di un dilemma. Ed è per questo che Schulz rappresenta un caso interessante. Ciò che accadrà in Germania delineerà il futuro della sinistra europea. Mi piacerebbe vedere più di un semplice “populismo di sinistra”. E ci sono elementi che potrebbero fare una differenza in questo senso.

Per esempio?

Perché non creare una sistema coordinato di imposizione che possa recuperare risorse collettive? Inoltre, perché continuare a garantire l’esistenza del Lussemburgo, quando l’unica ragione d’esistenza delle sue istituzioni, è quella di far nascondere i soldi originati altrove in Europa: si tratta di un vero e proprio paradiso fiscale nel cuore dell’Unione – è semplicemente ridicolo. Perché non diamo 5 anni di tempo all’Irlanda per smettere di imbrogliare il resto dell’Europa con la propria legislazione a favore degli interessi delle grandi multinazionali? Sono tutte soluzioni che non hanno nulla a che vedere con il consolidamento di una struttura gerarchica, ma, piuttosto, con l’implementazione di accordi orizzontali tra Stati che possano finanziare un agenda nell’interesse dei cittadini. I sistemi socialdemocratici hanno funzionato sulla base del principio che sono le politiche a creare una “polis”. In altri termini, se si creano politiche che beneficiano i cittadini, questi ultimi, in cambio, supportano il sistema. Oggi, al contrario, usiamo la retorica di David Cameron, che implica governi che fanno “di più” con “meno risorse” – e non temporaneamente, ma su base continuativa. Quando la distribuzione del reddito in una società, è totalmente sbilanciata, si crea una dinamica per cui, alcune fette della popolazione – che godono di risorse ed opzioni private – semplicemente non si curano delle “politiche pubbliche” messe in atto dalle istituzioni. Mentre coloro che dipendono dalle stesse “politiche” inattuate, sono costantemente spinti vero il basso. In fin dei conti, non si tratta di un problema di “populismo”, bensì di “credibilità”. La sinistra non può continuare a fare cose che colpiscono la propria base elettorale.

«In estrema sintesi, si arriverà a una così detta “Brexit dura”. In questo caso, il Regno Unito diventerà un’economia composta, da un lato, da un sistema di export ad alto valore aggiunto; dall’altro, da un mercato interno che si baserà su una bassa regolamentazione del mercato del lavoro. In un certo senso, il Regno Unito diventerà una sorta di enorme Lettonia, con Londra come centro nevralgico»

Cambiamo totalmente focus. Lei è scozzese: inevitabile chiederle come vede il processo della Brexit. Come vede il futuro della Scozia?

Non posso prevedere il futuro, ma lo schema degli incentivi è abbastanza chiaro. Da un lato, il Partito Nazionalista Scozzese (NSP) è stato forgiato come il partito anti-austerity – anche se, a dire il vero, non hanno mai alzato le tasse. Dall’altro, la Scozia vive chiaramente dei sussidi del Governo britannico. Si tratta inoltre di una popolazione anziana, con indicatori di salute non ottimali. In estrema sintesi: non stiamo parlando della società più produttiva e dinamica sullo scacchiere globale. Senza contare, che il deficit di bilancio implicito dell’amministrazione devoluta, è stimato tra il 7 e l’11 per cento – tra l’altro, sarebbe inutile pensare che la vendita del greggio riesca a coprire questo buco: l’estrazione rimarrà a livelli bassi per i prossimi dieci anni. Insomma, considerando queste premesse, come sarebbe possibile riuscire a produrre ricchezza, una volta indipendenti?

Quindi?

In estrema sintesi, si arriverà a una così detta “Brexit dura”. In questo caso, il Regno Unito diventerà un’economia composta, da un lato, da un sistema di export ad alto valore aggiunto; dall’altro, da un mercato interno che si baserà su una bassa regolamentazione del mercato del lavoro. In un certo senso, il Regno Unito diventerà una sorta di enorme Lettonia, con Londra come centro nevralgico. Se questo è uno scenario credibile, per la Scozia – che rappresenta circa un undicesimo dell’economia britannica – e che vive di trasferimenti destinati a scomparire, la scelta è tra l’impoverimento generalizzato all’interno del Regno Unito da un lato, e una dieta fiscale “indipendente”, dall’altro. Nello scenario “indipendentista” un potenziale accesso all’Ue – ammesso che questa ultima esisterà ancora – rimane una questione aperta. Ma in ogni caso, la Scozia non può mettere in piedi uno stato sociale solido sulla base di un deficit tra il 7 e l’11 per cento. A maggior ragione, se combinato con l’assenza di una vera e propria sovranità monetaria. Se nel lungo periodo il Regno Unito diventerà il sistema economico più neoliberale del G20, e la Scozia rimarrà agganciata ad esso, non ci sono molte scelte.

Sembra non avere dubbi sulla “Brexit dura”…

Assolutamente. Non c’è alternativa. Se il governo britannico avesse voluto evitare questo scenario, avrebbe potuto, da un lato, garantire al Parlamento l’ultima parola sui negoziati, oppure, dall’altro, dichiarare il risultato del referendum come “non vincolante”. Invece, è stato così arrogante da rovinare l’intero processo. E ora, il Regno Unito dovrà subirne le conseguenze.

Traduzione di Alexander Damiano Ricci