Quesiti linguisticiPerché le fake news si chiamano “bufale”? Risponde la Crusca

C’entrano i macellai imbroglioni di Roma, e pure le suole delle scarpe delle donne che provocavano pericolose cadute. L’origine, in ogni caso, si trova nel romanesco

Tratto dall’Accademia della Crusca

Alla voce bufala (f. di bufalo dal lat. būfalum), i dizionari riportano solitamente tre accezioni; citiamo il Sabatini-Coletti: 1. “femmina del bufalo”; 2. “notizia clamorosamente infondata, errore madornale”; 3. “produzione artistica noiosa e scadente”. Le ultime due accezioni sono ovviamente figurate; alla prima accezione si lega l’espressione mozzarella di bufala, per indicare la mozzarella prodotta con latte di bufala e non di mucca, tanto che, per ellissi, nel parlato e in determinati contesti, bufala indica proprio questo formaggio, particolarmente pregiato.

Stando al GRADIT di De Mauro, l’uso figurato di bufala sarebbe attestato dal 1960 e deriverebbe dal romanesco e tale datazione risale a Claudio Quarantotto, che riporta un esempio di Gianfranco Calderoni, che parla di «un film che, anche prima di essere visto, fu definito una “bufala” dagli amici romani». Paolo D’Achille, oltre ad aver segnalato un’attestazione anteriore dell’uso figurato di bufala, all’interno di uno sketch di Nino Manfredi nella Canzonissima del 1959 (Fusse che fusse la vòta bbona), ne ha proposto una spiegazione convincente. Il significato figurato di bufala avrebbe avuto origine in ambito gastronomico, non con riferimento alla mozzarella di bufala, ma alla carne; alcuni ristoratori romani disonesti, infatti, avevano il malcostume di spacciare la carne di bufala invece della più pregiata carne di vitella; di qui il termine avrebbe assunto il valore di ‘fregatura’ e quindi di ‘notizia falsa’ e di ‘produzione artistica/cinematografica scadente’.

Un’altra attestazione anteriore, collegata a quest’ultima accezione del termine, si trova (e l’ho segnalata io stesso in un articolo su “Lingua nostra”, LXXI, 2010, pp. 52-53) nel romanzo di Ercole Patti, Un amore a Roma (1956), in cui viene perentoriamente evidenziata l’origine del termine dal romanesco: “La ragazza, pur conservando l’accento veneto, non appena il discorso era passato al cinematografo, aveva cominciato ad esprimersi in termini romaneschi. Non ha visto il Pozzo dei miracoli? Meglio così. Una vera bufala. Una? chiese Marcello. Una bufala. Si dice così a Roma quando si vuole alludere a un film brutto e noioso”.

Ho l’occasione di presentare qui un ulteriore dato: recentemente mi è capitato di parlare dell’argomento con un anziano parlante romano, che mi ha ricordato un fatto che accadeva proprio a Roma, intorno agli anni Quaranta. All’epoca le donne erano solite portare, per risparmiare, delle scarpe con le suole in pelle di bufalo/bufala, invece del più costoso cuoio; capitava, nei giorni di pioggia, che con tali calzature si scivolasse, anche con considerevoli conseguenze; quando una donna infortunata arrivava al Pronto Soccorso (l’allora CTO della Garbatella), il personale d’ospedale, considerata l’alta frequenza dei casi, usava l’espressione “Ecco un’altra bufala” (indicando la paziente metonimicamente con la causa del suo incidente: ‘un’altra scarpa in pelle di bufalo aveva provocato nuovamente una brutta caduta’). Di qui il termine sarebbe diventato sinonimo di fregatura, per passare poi a indicare sia la notizia falsa, sia una produzione cinematografica di scarso valore. Non sono in grado di verificare la veridicità di questo racconto, che comunque conferma l’origine romana dell’uso figurato del termine.

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