Ribaltando l’antica metafora, si scherzi pure coi santi ma meglio non farlo con il popolo. Almeno in Gran Bretagna. Theresa May è il secondo primo ministro di fila a lasciarci le penne, dopo aver dato per scontato che il popolo fosse convintamente dalla sua parte. Nemmeno due mesi fa, la leader del partito conservatore aveva preso in contropiede gli avversari portando il Paese a elezioni anticipate con uno scopo più che dichiarato. Vedersi riconosciuta una statura di governo strong and stable, forte e stabile, per andare a trattare la Brexit con un mandato pieno. I sondaggi erano dalla sua parte. Ma l’obiettivo è stato fallito, perché poi gli elettori vanno convinti. Ieri hanno risposto togliendo ai conservatori la maggioranza alla Casa dei Comuni, nonostante l’escalation di attentati. E meno di un anno dopo lo storico referendum convocato dal predecessore della May, David Cameron, proprio per cercare di archiviare per sempre il tema dell’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea. Si sa come è andata, per l’Europa e per Cameron.
A Londra, non c’è più una maggioranza. Tre le ipotesi accreditate per proseguire la legislatura. Un governo di coalizione guidato dai conservatori o dai laburisti con qualche forza minore come i partiti nordirlandesi e scozzesi o con i liberaldemocratici, gli unici a essere apertamente europeisti. Un governo di minoranza guidato dai conservatori o dai laburisti. O altre elezioni generali entro l’anno. La prima ipotesi è stata quella subito praticata dalla May, che ha annunciato di rimanere in sella grazie ai voti del partito unionista dell’Irlanda del Nord, il Dup. Ma la terza ipotesi resta in piedi: quanto potrà durare un premier dimezzato?
In inglese lo chiamano tecnicamente hung Parliament, un Parlamento appeso, cioè sospeso. I giornali conservatori si orientano su una parola più facile: caos. Due metafore che raccontano lo stesso risultato elettorale sottostimato dai sondaggi, ma comunque non escluso fino a ieri, pur nella peggiore delle ipotesi. I conservatori della May restano il primo partito, ma non hanno abbastanza seggi per continuare da soli (qui i dati finali sul sito della Bbc). Si sono fatti acciuffare dai laburisti di Jeremy Corbyn, l’alfiere della vecchia sinistra che secondo l’establishment e i blairiani sarebbe inadatto a governare. Ad aprile il rapporto di forze fra la May e Corbyn, secondo i sondaggi, era di 44 a 26. All’esito del voto i conservatori hanno preso il 42%, ma i laburisti sono arrivati al 40. Azzardo che non sarà perdonato (insieme ad altre cose) al primo ministro in carica.
A Londra, non c’è più una maggioranza. Tre le ipotesi accreditate. Un governo di coalizione guidato dai conservatori o dai laburisti con i liberaldemocratici, gli unici a essere apertamente europeisti. Un governo di minoranza guidato dai conservatori o dai laburisti. O altre elezioni generali entro l’anno.
Si tornerà, dunque, indietro sulla strada della Brexit? No, perché i due principali partiti si sono impegnati a rispettare l’esito di un referendum popolare, che resta sacro. Anzi, quello della Brexit non è stato nemmeno un tema centrale della campagna elettorale, se n’è parlato di più all’estero. E questo, come è stato osservato anche prima del voto di ieri, può aver paradossalmente azzoppato la May, che chiedeva un mandato forte su una scelta politica ormai data per scontata, tanto che va sottolineata la sostanziale scomparsa degli indipendentisti dell’Ukip. Agli elettori britannici interessano di più le proposte politiche legate al welfare, alla sanità, all’istruzione. E su questo il primo ministro non ha convinto abbastanza, fra l’altro sottraendosi in maniera plateale ai confronti tv coi suoi avversari. E’ però certo che con il risultato elettorale dei conservatori è sempre più difficile una hard Brexit. Perché non c’è una maggioranza a favore sia in Parlamento sia nel Paese, che resta spaccato sostanzialmente in due come al referendum di un anno fa. Londra sarà, dunque, più debole anche nei confronti dei partner europei.
Ci sarà tempo per capire che cosa non ha funzionato in questa campagna elettorale. Il caos sarà addebitato sicuramente alle scelte della May. L’azzardo del voto anticipato seguiva all’azzardo di essere diventata pro-Brexit solo dopo il referendum. Una leader nata per caso, dopo la caduta di Cameron. E che ora dovrà fare i conti con l’establishment del suo partito. Nemmeno l’allarme terrorismo sembra aver inciso più di tanto, nonostante il primo ministro abbia scelto i toni del comandante in capo, finendo anche per doversi difendere dalle accuse di Corbyn di aver tagliato i fondi alle forze dell’ordine quando era ministro dell’Interno.
Emerge ancora una volta, invece, l’imprevedibilità dell’elettorato, che non ama svolgere il ruolo di soldatino disciplinato di politici, giornalisti e sondaggisti. Sarebbe sbagliato leggere il risultato britannico con le lenti della politica italiana. Diverso il sistema, diverso il peso geopolitico, diversa la qualità delle persone. Se proprio lo si deve fare, si guardi dove può portare la distanza fra i desiderata dei leader e la quotidianità delle persone. Su un punto il prossimo Parlamento inglese ci assomiglierà: sarà difficile trovare qualcuno che comandi per davvero.
@ilbrontolo