Il cinese Sun Tzu è molto chiaro nelle sue prescrizioni strategiche. «Le regole per impiegare le truppe sono queste», scrive nel terzo capitolo del suo celebre manuale dedicato all’arte della guerra. «Se sei dieci contro uno, devi accerchiare il nemico. Se sei cinque volte più forte, attaccalo. Se la tua forza è il doppio della sua, dividiti. Quando le forze sono eguali, se puoi, impegna il combattimento. Ma quando sei inferiore in tutto, ritirati».
Per questo, quando alla fine della primavera del 1940 circa 400mila soldati alleati furono costretti a ritirarsi nei pochi chilometri quadrati del perimetro di Dunkerque — Dunkirk in inglese — accerchiati dalle soverchianti forze tedesche, l’unica scelta a disposizione degli strateghi alleati era, contrariamente a quanto prescrive l’epica romantica e hollywoodiana, la ritirata.
Le truppe britanniche, assiepate sulla enorme spiaggia piatta di Dunkerque furono, per un’intera settimana, alla mercé del fuoco dell’artiglieria, dei bombardieri e dei caccia tedeschi. Dalla loro, soltanto una manciata di Spitfire della Royal Airforce britannica a cercare, spesso inutilmente, di proteggere le navi da guerra incaricate di portarsi a casa la fanteria. Fu una fuga, e come tutte le fughe fu rocambolesca, fortunosa, disordinata, ma fu pianificata, decisa e studiata e in qualche modo fu perfetta, che passò alla Storia come Operazione Dynamo.
Su queste premesse è nato Dunkirk, il decimo film del regista londinese Christopher Nolan, uno dei più sorprendenti narratori cinematografici dell’ultima generazione che, dopo aver infilato un filmone dopo l’altro dai tempi di Memento — cosette come una trilogia di Batman, Insomia, The Prestige, Inception e Interstellar — un film accolto da quasi tutta la critica come un capolavoro, a ragione.
Dunkirk è un film che si potrebbe definire corale, uno di quelli di cui è inutile decidere se ci sia o meno un protagonista. Tra la manciata di uomini le cui storie, i piani temporali e le percezioni si intrecciano e si confondono (è pur sempre un film di Nolan, d’altronde, non credevate mica che i tempo scorresse normalmente?) c’è il comandante Bolton, interpretato da un granitico Kenneth Branagh, incaricato di presiedere alle operazioni di ripiegamento dalla spiaggia di Dunkerque.
Siamo nelle fasi iniziali del film e alla prima sera dell’operazione. Sul molo affollato di soldati affranti e disperati il comandante Bolton discute con altri due alti ufficiali di quello che si aspettano in patria, l’Inghilterra, che quasi si vede spuntare all’orizzonte. «How many men are they talking about?», Di quanti uomini stiamo parlando? fa un colonnello. «Churchill ne vuole indietro trentamila», gli risponde un ammiraglio, «ma Ramsay spera quarantacinquemila». Di fianco a loro c’è Bolton, che prima di parlare osserva la distesa di uomini armati del solo fucile, sporchi, stanchi e senza riparo, e poi interviene: «There are four hundred thousand men on this beach, sir», su questa spiaggia ce ne sono 400mila, signore. Poi aggiunge: «Questo molo deve restare agibile. Ad ogni costo».
In quello sguardo di Bolton, in quella sua volontà di non arrendersi all’evidenza di una sconfitta imminente, c’è qualche cosa che potrebbe ricordare Nolan. Anche Nolan, come tutti coloro che fanno cinema — un certo cinema più di altri —, si trova a comandare un esercito in difficoltà, accerchiato da forze soverchianti. La metafora bellica è ovviamente iperbolica, ma la strana dialettica che si è instaurata tra il linguaggio cinematografico e quello televisivo, da una decina d’anni, somiglia proprio a una ritirata scomposta, a un ripiegamento e a un appiattimento su linguaggi e strutture ai quali i media concorrenti lo stanno costringendo.
È per questo, più che per ogni altra cosa, che il cinema di Nolan come scrive giustamente Giorgio Viaro su BestMovie, è un grido di sopravvivenza. Ma se anche l’analogia militare è affascinante, c’è una differenza tra il capolavoro strategico degli Alleati a Dunkerque e quello cinematografico del Dunkirk di Nolan, ed è una differenza sostanziale: alle spalle di Nolan non c’è un’Inghilterra in cui rifugiarsi e ripartire. Pensate soltanto che, in Italia, Dunkirk si può vedere in tutto il suo splendore — di immagini e di sonoro — in appena una manciata di sale. La gran parte del pubblico lo vedrà ampiamente depotenziato.
Il rischio è evidente. Per questo qualche tempo fa proprio Nolan aveva lanciato più di un’accusa in direzione di Netflix, colpevole, secondo il regista inglese, di mettere in serio pericolo la sopravvivenza delle sale cinematografiche con la sua strategia commerciale e, di conseguenza, anche di quel modo di fare cinema di gente come Nolan.
Per questo motivo, se non ci rendiamo conto che, in Italia e non solo, il sistema cinema ha bisogno di investimenti strutturali per non essere fagocitato dalla logica del “cinema da divano”, film come Dunkirk rischiano di essere più il canto del cigno che un contrattacco. L’ultimo grido di un cinema capace di sfruttare le proprie armi specifiche, quelle che nessun altro medium narrativo possiede, del cinema che dimostra di poter essere straordinariamente efficace anche con pochissimi dialoghi, con una sceneggiatura di poche decine di pagine, senza un protagonista e una trama ingombrante, ma solo e soltanto con la forza di una inquadratura, di un movimento di macchina, di un suono in presa diretta, o con la potenza di un’espressione (a proposito, per favore date un Oscar a Tom Hardy), di uno sguardo o di un silenzio. Un cinema che, senza sale adeguate in grado di valorizzarlo, è destinato a morire.