Ci sono due modi per andare a vedere Blade Runner 2049 di Denis Villeneuve, che esordirà nelle sale italiane giovedì 5 ottobre. Il primo modo è quello del religioso. È andare a vedere l’attesissimo sequel di uno dei più grandi cult del cinema di fantascienza di tutti i tempi, il Blade Runner di Ridley Scott, il che significa entrare al cinema, sedersi in poltrona e passare ogni singolo istante del film a confrontarlo con il suo progenitore.
Il secondo modo è quello del laico. È andare a vedere un film di fantascienza girato da uno dei più interessanti registi in circolazione, Denis Villeneuve, affiancato da uno dei più bravi direttori della fotografia in circolazione, Roger Deakins (che dite, quest’anno glielo diamo o no un Oscar a ‘sto poveretto?), che, tra le altre cose, è anche in continuità narrativa con uno dei più grandi film di fantascienza della storia.
Lo spettatore A, il clerico, vedrà nel film tutto quello che lo differenzia dal Final Cut di Scott e che, quindi, non funziona: l’eccessiva verbosità, quasi al limite dello spiegone, di quasi tutto il film; i personaggi in bianco e nero, tagliati con l’accetta alla maniera delle saghe Marvel — il cattivone-santone è a tratti ridicolo, soprattutto doppiato in italiano —; l’assurdità di alcune scelte secondarie del plot, che portano quasi a pensare che in produzione ci sia qualcuno che non vede l’ora di lanciarsi in una cascata di sequel e, da ultimo, di un product placement francamente troppo selvaggio.
Il laico spettatore B, invece, con l’animo alleggerito dal non dover far confronti a tutti i costi, vedrà invece nel film di Villeneuve tutto ciò che funziona: si divertirà a seguire il plot scifi-poliziesco, tenuto molto bene, in grado di portare a spasso lo spettatore quando serve, ma anche di far tornare tutto alla fine, senza eccessivi salti mortali carpiati.
Ma si godrà anche lo spettacolo visivo mozzafiato che offre la fotografia di Deakins; si innamorerà della decadente ma bellissima Las Vegas versione Dune, popolata di sgarruppati fantasmi digitali novecenteschi (che tra l’altro non sfigurano nemmeno di fronte ai giocattoli del primo Blade Runner), ma anche un po’ della nuova Los Angeles; sospirerà di sollievo nel constatare che Ryan Gosling tiene bene la parte che fu di Harrison Ford e apprezzerà moltissimo l’originalità della resa del personaggio femminile virtuale, interpretato da Ana de Armas, molto molto interessante.
All’epoca dei sequel un prodotto come Blade Runner 2049 è senz’altro da applaudire. Ha coraggio, autorialità e stile per stare in piedi da solo, ma è chiaro che, se messo a confronto con suo fratello maggiore, rischia di squagliarsi. Certo, c’è anche chi, come moltissimi critici americani, si è lasciato andare a dichiarazioni maestose – il numero uno in questo caso è certamente Michael O’Sullivan, che sul Washington Post ha titolato senza nessun timore di eccedere in entusiasmo “Blade Runner 2049 is a sequel that honors — and surpasses — the original”.
Eppure sbagliano, e non tanto perché sia esagerato quello che scrivono, quanto perché, per eccesso di entusiasmo, rischiano di fare un torto a questo film di Villeneuve che merita di essere goduto esattamente per quello che è: un bellissimo film di fantascienza che ci intrattiene, ci fa riflettere sul significato, sempre in evoluzione, delle opposizioni umano -non umano e reale – virtuale, e non da ultimo, con la sua esperienza visiva impressionante ci ricorda quanto facciamo bene a sederci su quella poltrona, davanti a quello schermo gigante, ogni volta che scegliamo di toglierci il pigiama, uscire di casa e spendere dei soldi per andare al cinema.