Inizio con il dire che tutte le parole che finiscono con “crazia” mi allertano. “Crazia” è un suffisso usato nelle parole composte e ha il significato di “potere”, così per esempio, la democrazia è il “potere del popolo”, la burocrazia è il “potere degli uffici” (da bureau, ufficio in francese) e, naturalmente, la meritocrazia è il “potere del merito”.
Ecco il primo inghippo: il potere. Il potere è una parola e un concetto che non amo: il potere, quasi sempre, diventa mestiere del potere, il potere, quasi sempre, diventa un esercizio sterile. Il potere è statico. Alla parola potere ho sempre preferito la parola “potenza”, termine che rimanda all’energia, alla dinamica e a qualcosa di misurabile e quindi giudicabile. Il potere non si giudica, si subisce o lo si esercita. Esprimere “potenza” è più elegante che esercitare “potere”. E così, partendo dal fondo, il suffisso della parola “meritocrazia” non mi piace, anche se so che, come diceva Winston Churchill a proposito della democrazia, non abbiamo trovato ancora nulla di meglio. Questo però non ci impedisce di continuare a cercare.
Ma veniamo al nocciolo della questione: il merito. Devo confessare che a uno sguardo superficiale, questa parola non mi dispiace nemmeno, anzi, mi sembra una di quelle parole da usare e diffondere e difendere. Poi però un giorno l’ho allontanata dalla mia bocca e l’ho guardata bene e ho iniziato a vedere alcune sfumature e alcuni riflessi che non mi piacevano, esattamente come gli occhi di quei pesci, non più così freschi, sul banco del pescivendolo. Ve li mettereste in bocca?
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