A volte, in nome della liberta’, bisogna stare dalla parte di chi, sbagliando, perde. Un tema ricorrente nei commenti di queste settimane – prima sul velleitario tentativo d’indipendentismo “a freddo” catalano e poi sui due referendum “autonomisti” in Lombardia e Veneto – è che tali iniziative fomenterebbero ulteriori provincialismi in un’Unione Europea già divisa quando ci sarebbe invece bisogno di riduzione delle barriere esistenti. Giusto? Certamente, ma solo in parte e non per la parte rilevante: per paradossale che possa essere, tale osservazione è tatticamente corretta ma strategicamente erronea.
Negli articoli precedenti ho sostenuto che la crisi catalana e, aggiungo ora, i referedum lombardo-veneti riflettono fondate contraddizioni che affliggono non solo la Spagna ma anche altri paesi europei, l’Italia in primis. Se queste contraddizioni non vengono affrontate e risolte in ambito europeo il progetto federativo non potrà avanzare; esso rischia invece di retrocedere proprio a causa delle dinamiche politiche che il ripetuto deflagrare di questi problemi irrisolti determinano all’interno dei singoli paesi.
Detto brutalmente: un’Europa “federale” non potrà nascere finché i quattro (Francia, Germania, Italia e Spagna, che diventano cinque, se contiamo anche la Polonia e sei se il Regno Unito dovesse fare marcia indietro su Brexit) non si “frantumeranno volontariamente” in entità politiche più piccole per le quali un’effettiva unione federale europea diventi non solo una convenienza ma un’urgente necessità. Perché l’Europa possa mettere in moto quel processo che da e pluribus conduce ad unum essa dovrà liberarsi dal continuo ricatto che i poteri politici, economici e burocratici dei grandi stati praticano nel loro tentativo, tanto naturale quanto deleterio, di autopreservarsi. Finché il potere sarà concentrato nelle capitali dei grandi paesi questi penseranno alla UE come al luogo di contrattazioni, compromessi e trattati fra entità che mantengono il proprio potere autonomo. E questo genera sia paralisi che rigetto, come da vent’anni andiamo apprendendo.
Alcuni stati nazionali sono grandi abbastanza da esercitare un potere di veto insuperabile, a livello europeo, da coalizioni degli stati più piccoli. Non solo: i gruppi d’interesse economico-burocratico degli stati maggiori sono forti abbastanza e possono attingere ad una base fiscale grande abbastanza da permettere loro di posticipare scelte cooperative nello sforzo di strappare condizioni vantaggiose per gli interessi che essi rappresentano.
Sono consapevole sia di auspicare un processo che oggi appare impossibile sia di sottolineare un’ovvietà ch’è sotto gli occhi di tutti ma che è vietato asserire in pubblico perché viola le regole della “correttezza politica” dominante in Europa. Un esempio simbolico, prima di passare ai dati oggettivi, è quello della lingua: che lingua europea? Mentre è concepibile uno stato federale dove due o tre lingue siano comunemente usate dalla stragrande maggioranza della popolazione (come nel caso della Svizzera o di molti paesi dell’Europa del nord) è ovviamente ridicolo pretendere l’apprendimento di una ventina di lingue diverse. Ma, finché esistono stati grandi abbastanza da poter pretendere che la propria lingua ufficiale non sia solo un idioma locale ma debba essere usata a livello continentale, non vi sarà lingua comune. E senza almeno una lingua comune non ci può essere federazione. Solo dalla babele dei “dialetti locali” può emergere, per pragmatica necessità e non come simbolo identitario, una lingua comune che tutti possano apprendere per comunicare con gli altri concittadini europei.
Consideriamo ora i fatti oggettivi.
1. Gli stati nazionali si son creati nei secoli perché rispondevano a necessità economiche e militari allora impellenti: creazioni di mercati nazionali ampi a sufficienza (date le tecnologie dell’epoca) e di apparati militari capaci di garantire la difesa di tali mercati e dei poteri politici che li governavano. È oggi palese che né i mercati nazionali sono sufficienti per rendere vantaggioso l’utilizzo delle tecnologie più avanzate né essi sono proteggibili, in un contesto globale, dagli eserciti dei singoli paesi europei. Un mercato integrato europeo, un esercito europeo ed una politica estera europea sono da almeno due decenni una obiettiva necessità ma qualsiasi movimento in quella direzione viene continuamente paralizzato dall’ergersi di interessi definiti a livello dei singoli stati e da questi politicamente supportati. I “campioni” da proteggere sono sempre “nazionali” e mai “regionali” o “autonomici”, mai.
2. I maggiori ostacoli ad ogni tentativo di creazione di ambiti europei – dal settore bancario a quello previdenziale, dalla politica estera e militare al mercato del lavoro sino ai sistemi di trasporto a quelli giudiziari, educativi e via dicendo – vengono eretti dalle burocrazie statali e dagli interessi politico-economici che esse rappresentano. Non potrebbe essere altrimenti: alcuni stati nazionali sono grandi abbastanza da esercitare un potere di veto insuperabile, a livello europeo, da coalizioni degli stati più piccoli. Non solo: i gruppi d’interesse economico-burocratico degli stati maggiori sono forti abbastanza – e, soprattutto, possono attingere ad una base fiscale grande abbastanza – da permettere loro di posticipare scelte cooperative nello sforzo di strappare condizioni vantaggiose per gli interessi che essi rappresentano. Alitalia docet.
3. I gruppi politici che controllano i grandi stati godono oggi di un potere ampio abbastanza da rendere non conveniente il rischio di giocare la partita elettorale a livello europeo. A fronte di un potenziale, ma poco probabile, allargamento del potere su scala continentale sta il rischio che tale scommessa porti alla perdita del potere che ora esercitano all’interno dei propri paesi. Meglio comandare con certezza 40, 60 o 80 milioni di persone che partecipare ad una competizione per comandarne 400 nella quale la probabilità di “vittoria” del proprio gruppo d’interesse è decisamente minuscola.
Meglio provare ad avere il coraggio di riflettere sulla realtà di un’Unione Europea ostaggio dei nazionalismi statali (non dei localismi) invece che fantasticare su una federazione che – per ragioni oggettive – è semplicemente impossibile a partire dai poteri statali esistenti.
Questi i fatti sul terreno, a fronte dei quali il provincialismo catalano, lombardo-veneto o sloveno è del tutto secondario. Meglio provare ad avere il coraggio di riflettere sulla realtà di un’Unione Europea ostaggio dei nazionalismi statali (non dei localismi) invece che fantasticare su una federazione che – per ragioni oggettive – è semplicemente impossibile a partire dai poteri statali esistenti.
La secessione catalana e l’autonomia lombardo-veneta sono, così come vengono oggi formulate, delle velleitarie sciocchezze. Ma esse dovrebbero forzarci a fare i conti, a livello europeo, con la vera questione su cui grava il silenzio. La federazione di cui (quasi) tutti riconoscono (a parole) la validità rimarrà una retorica (e forse dannosa) velleità fino a quando la società civile europea e le sue elite politiche non cominceranno a dibattere su come dissolvere gli stati nazionali in entità di minore dimensione e maggiore omogeneità socio-culturale per le quali l’Europa Unita non sia solo il terreno di giochi di potere ma un’urgente necessità di cooperare per sopravvivere. Hic sunt leones.