Ego. Bastano tre lettere per identificare uno dei più grandi nemici che l’Umanità si sta trovando ad affrontare in questo XXI secolo. Un ego — quello di ognuno di noi — che si è fatto ipertrofico, onnipresente, incontinente e che, partendo dai nostri smartphone si comunica incessantemente, si autoerge a baricentro e misura del mondo, si assolutizza e si reifica nel suo apogeo: il selfie, ovvero il narcisismo elevato a se stesso, il trionfo finale della tendenza alla sopraffazione dell’uno sui molti.
In inglese, la parola Selfie suona praticamente identica alla parola Selfish, che significa appunto Egoista rendendo forse un po’ più palese il grande equivoco che sta alla base della massima autocelebrazione di se stessi, ormai vero feticcio della contemporaneità. «Non avrai altro dio all’infuori di te», verrebbe da dire, vampirizzando il primo comandamento dei cristiani per mettere un cappello a questa tendenza. Se non fosse che c’è poco da ridere, perché la cosa ci sta sfuggendo di mano e le conseguenze di questa politica dell’incontinenza son sempre più visibili e palesi nel mondo intorno a noi.
Il selfie è un gesto sbagliato e lo è da molti i punti di vista. Perché non è solo un semplice atto di narcisismo, è molto di più: è un atto di narcisismo elevato al quadrato, è un inedito coccolarsi l’ombelico, ignorando tutto il resto e mascherando il vuoto che abbiamo dentro. È l’affermazione massima della frontiera e del nazionalismo, che, mentre crollano le nazioni che l’hanno ispirato, sta trovando in ognuno dei nostri corpi la Madre Patria da santificare, difendere e affermare di continuo.
Che cosa comporta questa vera e propria epidemia sulle nostre abitudini e sul nostro cervello? Che cosa ci dice di noi? Secondo quanto ha fatto emergere una ricerca dell’Università dell’Ohio, per esempio, gli utenti di Instagram che postano più fotografie di se stessi, non dimostrano soltanto una tendenza al narcisismo più elevata del normale, ma mostrano anche sintomi di psicopatologie legate alla personalità.
Sintomo di una profonda insicurezza di sé, l’abuso dei selfie, secondo i ricercatori dell’Ohio, dimostrerebbe soprattutto una tendenza alla auto-oggettivizzazione, ovvero al concentrarsi sull’apparire piuttosto che sull’essere, una dinamica che, in individui particolarmente deboli, può innescare disturbi come l’anoressia e la bulimia, per esempio.
Secondo quello che scrive la psicoterapeuta francese Elsa Godart, che nel 2016 ha pubblicato un libro sull’argomento intitolato Je selfie, donc je suis, che in italiano potrebbe suonare come un post cartesiano “Selfo, dunque sono”, la componente più forte del selfie è la contraddizione. Cosa significa? «Quello che potrebbe sembrare un palese atto di narcisismo», scrive Elsa Godart, «spesso nasconde in realtà una forte insicurezza e una vera e propria ansia di rassicurazione: una rassicurazione che può soddisfare soltanto con i like. Ma è un serpente che si morde la coda, perché lungi dal calmare la nevrosi (anche se per qualche secondo lo fa credere), il pubblicare un selfie la amplifica soltanto».
Nevrosi, psicopatologie, disturbi della personalità, ma anche totale dipendenza dall’approvazione altrui. Il profilo patologico del selfista compulsivo, insomma, si complica alquanto. Ma anche uscendo dal particolare e andando al generale, le cose non migliorano affatto, anzi. Perché in quanto ultima tappa della desertificazione morale e della frantumazione della nostra società, la mania dei selfie segna il momento più basso del rapporto di fiducia tra l’unico e la sua comunità, e facilita così tutta una serie di dinamiche tossiche che ormai ci accerchiano: dall’hate speech compulsivo fino alla morte clinica del concetto stesso di autorevolezza, una robettina talmente marginale che, come delle fondamenta, ci avevamo costruito sopra l’intera modernità e la cui riduzione in polvere nel corso degli ultimi trent’anni ci sta regalando l’ebbrezza di vedere iniziare un nuovo medioevo.