Il Paese più ricco, influente e potente d’Europa è riuscito in meno di due mesi a diventare il problema più grande dell’Unione europea. Angela Merkel, motore immobile dell’Ue dal 2005 a oggi, non è riuscita a formare la coalizione di governo. Doveva essere il quarto mandato consecutivo della cancelliera; l’occasione per cambiare con Emmanuel Macron l’Unione europea. Quattro anni per passare alla storia come la statista che ha preso in mano il destino dell’Europa nell’era dell’America First di Trump; non solo come la grande tattica che ha fatto finora gli interessi della Germania. Ora Merkel rischia addirittura di tornare alle elezioni. E di perderle.
Dal voto del 24 settembre, sono passati 57 giorni di negoziati. Al tavolo cristiano-democratici, liberali e verdi hanno discusso di migranti, ministeri e azioni contro il cambiamento climatico senza trovare un accordo che accontentasse tutti. Merkel si era autoimposta il 16 novembre come termine ultimo per comporre la coalizione Giamaica, chiamata così perché il colore dei tre partiti (giallo, verde e nero) richiama la bandiera dell’isola caraibica. Poi la scadenza è stata spostata a domenica 19. Ma alla fine il leader dei liberali Christian Lindner si è tirato indietro. «Meglio non governare che governare male» ha detto.
Dichiarazioni politiche a parte, la strategia di Lindner è chiara, come abbiamo spiegato qui: il leader del Fpd ha preso un partito logoro, fuori dal Parlamento, al suo minimo storico e gli ha fatto ottenere il 10,8% (80 seggi) alle elezioni promettendo una politica dura contro i migranti irregolari e intransigenza nei confronti delle economie degli altri Paesi Ue. Dopo una campagna elettorale aggressiva non poteva accontentarsi di un accordo al ribasso. I liberali hanno chiesto fin da subito la poltrona di ministro delle finanze senza cedere alle richieste ambientaliste dei verdi. Lindner non vuole ripetere l’errore dei suoi predecessori: l’alleanza con la Cdu nel secondo governo Merkel dal 2009 al 2013 portò a un crollo di voti per l’Fdp, visto come l’alleato debole e docile della coalizione. Lindner ha più paura di governare e perdere consensi che andare di nuovo al voto. Non a caso è sul tema migranti che l’accordo è saltato. Un tema che i liberali giocheranno in campagna elettorale.
Finora la Germania è stata dalla riunificazione del 1990 in poi il fulcro della politica europea. Senza un governo stabile di Berlino, l’Unione europea non riuscirà a risolvere nessuno dei dossier sul tavolo da affrontare nel momento peggiore. Nessuna riforma dell’eurozona, una posizione più debole del blocco dei 27 nel negoziato Brexit, nessuna pressione politica per fermare le riforme contro lo stato di diritto dei governi di Polonia e Ungheria. Tutto era stato rinviato al consiglio europeo di dicembre proprio per aspettare la formazione del governo tedesco.
In questa congiura dei fifoni c’è anche l’Spd. I social democratici tedeschi guidati da Schulz hanno ottenuto il peggior risultato elettorale dal dopoguerra. La base vuole ripartire da quel 20,6% e rifiuta qualsiasi idea di ripetere ancora la Grosse Koalition. Esclusa l’ipotesi dell’alleanza con Alternative Fur Deutschland, Merkel potrebbe sostituire i liberali con Die Linke, il partito di estrema sinistra nato dalla scissione con l’Spd nel 2007. Ma la Csu, il partito conservatore bavarese alleato di Merkel, non è disposto a spostarsi così a sinistra. La coperta è troppo corta e Merkel è davanti a un bivio: provare con un governo di minoranza – mai successo dal dopoguerra a oggi – o rinunciare e andare al voto, forse ad aprile. È il sistema proporzionale tedesco, bellezza. E Bruxelles non puo farci nulla; può solo aspettare e vedere cosa succede. Tutto è nelle mani del presidente della Repubblica Frank Walter Steinmeier che proverà a convincere i suoi compagni di partito del Spd. In un discorso alla nazione ha chiesto a tutti di non rifugiarsi nel voto anticipato e di assumersi le proprie responsabilità.
Già responsabilità. In un’intervista all’emittente Ard lunedì sera, Merkel ha detto di voler prenderne altre sulle sue spalle e di voler portare il suo partito al voto. Non vuole essere la cancelliera di un governo di minoranza che la renderebbe ostaggio di volta in volta degli altri partiti a seconda dei temi affrontati. Il rischio è alto: la rielezione non è certa; tutti gli altri partiti, compresa Afd potrebbero approfittare dell’incapacità negoziale della Merkel per aumentare i loro seggi con una campagna elettorale ancor più aggressiva. È ironico che la politica con la fama di negoziatrice spietata non sia riuscita a chiudere l’accordo. Ma fin da subito si è capito che non si è trattato di un negoziato; è stato un braccio di ferro tra l’astro nascente e la dominus della politica tedesca. Per ora ha vinto Lindner, ma l’opinione dei tedeschi su Merkel è ancora alta.
Mentre Berlino è intrappolata in questo pantano politico, Bruxelles e Parigi non ridono. Macron lunedì ha detto: «Non è nell’interesse della Francia che il negoziato in Germania sia bloccato». Se il 2017 ha indebolito le speranze di una riforma dell’eurozona, un governo tedesco fermo almeno fino a metà del 2018 affosserebbe il piano di Macron. Con il negoziato Brexit da portare avanti e le elezioni italiane di mezzo poi, tutto sarebbe rinviato a giugno del 2019, quando si voterà per il rinnovo del Parlamento europeo. Allora, forse, sarà troppo tardi per fare qualsiasi riforma.
La politica è fatta di momenti da cogliere e non serve essere lettori di Orazio per capire che il prossimo anno e mezzo sarebbe il periodo migliore per forzare politicamente la mano. Tranne l’Italia, che da sempre è abituata ad appoggiare più che proporre le riforme, tutti i Paesi più importanti hanno rinnovato i loro governi. Fino al 2019 non ci sarà nessun appuntamento elettorale che costringerà i leader europei a stare sulla difensiva. Ma con il fallimento dei negoziati per il governo tedesco, cambia lo scenario politico.
La Germania è stata dalla riunificazione del 1990 in poi, il fulcro della politica europea. Senza un governo stabile di Berlino, l’Unione europea si trova nel momento peggiore per risolvere i tanti dossier sul tavolo dei 27 leader. Nessuna riforma dell’eurozona, una posizione più debole del blocco dei 27 nel negoziato Brexit, nessuna pressione politica per fermare le riforme contro lo stato di diritto dei governi di Polonia e Ungheria. Tutto era stato rinviato al consiglio europeo di dicembre proprio per aspettare la formazione del governo tedesco.
La Commissione poi è riuscita nell’ultima settimana a chiudere due accordi simbolici che rischiano di rimanere lettera morta. Il 13 novembre Federica Mogherini è riuscita a far firmare a 23 Stati su 28 l’accordo PESCO per rafforzare la difesa comune, mentre quattro giorni dopo a Goteborg, in Svezia, tutti gli Stati si sono accordati per creare il pilastro sociale europeo: venti diritti fondamentali per sostenere l’equità del lavoro e dei sistemi di protezione sociale. Lo stesso giorno il Parlamento europeo ha finalmente approvato il documento per superare la riforma di Dublino. Da anni chiediamo insieme alla Grecia un sistema automatico di smistamento dei migranti per evitare di farli rimanere nel Paese dove arrivano. Il testo sarà discusso nel prossimo Consiglio europeo. Ma senza l’appoggio e l’impulso della Germania, tutti queste proposte rischiano di rimanere documenti da museo dei progetti politici mai realizzati.