Il bastone. Gliel’avessero dato cinquant’anni fa, nel 1967, per dire, al posto di Miguel Angel Asturias, gliel’avessero dato nel 1974, al posto del duo di pallidi misconosciuti Eyvind Johnson e Harry Martinson, avrebbe avuto un senso pacatamente ‘rivoluzionario’. Cinquant’anni dopo, il Nobel per la letteratura a Bob Dylan è semplicemente pacchiano, la pacca sulla spalla a uno che fa pacchi di soldi per ogni scoreggia in fa minore, la consacrazione del Nobel a Festivalbar della letteratura odierna (quest’anno mi attendevo l’alloro a Nick Cave, almeno è uno che sa scrivere, invece i ‘falchi’ tradizionalisti hanno premiato quella lagna dell’anglonipponico Kazuo Ishiguro, ma è possibile che non esista un grande poeta vietnamita, un geniale narratore somalo, un superbo scrittore uruguagio? Perché al Nobel vincono sempre&solo le nazioni ‘forti’?). Non ci credete? Fate bene. Facciamo un esempio, anzi, un esperimento scientifico (cari miei, la letteratura non è lo sfoggio del giudizio soggettivo, non è un ‘like’ ombelicale e sentimentale, è scienza, assioma oggettivo desunto dalla logica grammaticale). Pigliamo un pezzo di Just Like a Woman, canzone simbolo del disco Blonde on Blonde, tra i grandi di Dylan. “Nessuno prova dolore/ stanotte, mentre sto sotto la pioggia/ e tutti sanno/ che la bimba ha abiti nuovi”. Compariamo questi versi a una poesia di Francesca Serragnoli (non ho detto Emily Dickinson), bolognese, classe 1972. “Sul pelo dell’acqua/ come un cigno/ scendevi nel secolo…/ Stringo il sonno come una vecchia corda”. Secondo esempio. The Times Tey are a-changin’, la canzone più nota di Dylan, un manifesto di poetica. “Venite intorno gente/ dovunque voi siate/ ed ammettete che le acque/ attorno a voi stanno crescendo/ e accettate che presto/ sarete inzuppati fino all’osso”. Specchiamo il testo a una poesia qualsiasi di Federico Italiano (non ho detto William B. Yeats), classe 1976: “Poiché non da pianura,/ ma dal fronte dei monti fui edotto,/ educato alla venerazione del Mammut./ Scaglia di ghiaccio sopravvissuta al Pleistocene,/ quest’io ch’è un noi idrico/ sguscia sotto i confini”. Esito oggettivo. Due poeti italiani di oggi, che non conosce nessuno tranne chi pratica l’arte ostile della meraviglia poetica, meritavano il Nobel per la letteratura (non per la canzonetta) molto di più di Bob Dylan. D’altronde, che assegnare il Nobel a Dylan sia stata una trovata pubblicitaria, cioè una estatica puttanata, salta agli occhi dal ‘discorso’ registrato da Bob il 4 giugno scorso e reso pubblico ora da Feltrinelli per far cassa natalizia. Il discorso è una delle più brutte schitarrate mai udite da un Nobel per la letteratura. Di solito uno scrittore quando ottiene il Nobel, cioè un riconoscimento ‘sociale’, usa il palco per affondare deliranti bordate contro i tempi, i costumi, il mondo bastardo. Bob no. Bob si prende sul serio – per un giudizioso senso del pudore, un poeta che vince il Nobel non parla di sé e della sua opera – e ci apre la stanza della sua infanzia, chissenefrega. A Bob piaceva tanto Buddy Holly, il baby divo del rockabilly, “è morto quando avevo circa diciotto anni e lui ventidue. Non avevo mai sentito nulla di simile. Mi sentito imparentato a lui, come fosse il mio fratello più grande”. Dopodiché, Bob, strafatto di presunzione (“volevo scrivere canzoni diverse da ciò che si era mai udito prima”) ci fa la lista dei suoi libri prediletti. A Bob piace Moby Dick, “un libro affascinante, un libro pieno di scene drammatiche e di dialoghi drammatici. Un libro che ti pone molte domande” (Melville, ribaltando la tomba, lo uncinerebbe con i suoi sguardi-fiocina: una descrizione così neppure uno studente ripetente delle scuole medie); a Bob piace Niente di nuovo sul fronte occidentale (“una storia dell’orrore. Questo è un libro che ti fa perdere l’infanzia, la fede che il mondo abbia un senso”) e gli piace tanto l’Odissea (“una strana storia di avventure di un uomo adulto che cerca di tornare a casa dopo aver fatto la guerra”: ma vi rendete conto che smoking di banalità indossa il più influente cantautore di sempre, che razza di letterato citrullo? Tocca mandare Bob a ripetizioni di storia della letteratura, fate un fischio a Baricco, ci pensa lui), d’altronde Bob si sente Shakespeare, mica ninnoli (“le parole di Shakespeare sono pensate per essere messe in scena. Proprio come le canzoni sono pensate per essere cantate, non per essere lette”). Abusando dell’intelligenza del lettore – preso evidentemente per scemo – Bob stila la trama dei suoi tre libri preferiti, come se prima di lui, taumaturgo del pop, imbonitore di masse alcolizzate dal suo danaroso ribellismo, non esistessero, nessuno li avesse letti. Insomma, come letterato Bob è un fiasco; come musicista c’è di meglio. Solo che è un dritto. Sa monetizzare ogni pernacchia. Voi, che siete più svegli di lui, non fatevi infinocchiare. Il libro Feltrinelli che promette la Nobel Lecture non vale neanche i 6 euro di spesa. Il discorso – pardon, la strimpellata – di Bob per il Nobel è gratis, on line, sul sito www.nobelprize.org. E se non volete fare lo sforzo, c’è un audio in cui lui, Bob, su tappeto sonoro piuttosto kitsch, vi legge il discorso. Meglio ascoltarlo cantare. Forse.
Bob Dylan, The Nobel Lecture, Feltrinelli 2017, pp.48, euro 6,00
La carota. Il più figo è stato Iosif Brodskij. Esattamente trent’anni fa. 8 dicembre 1987. Uno dei più giovani premiati di sempre (Nobel per la letteratura a 47 anni, meglio di lui solo Albert Camus, a 44). Accattivante captatio a mo’ di incipit (“Per una persona dedita alla vita privata, per uno che ha sempre preferito la sua dimensione privata a qualsiasi ruolo pubblico e che nell’esercizio di questa preferenza si è spinto piuttosto lontano – lontano dalla sua madrepatria, per non dire altro, giacché è meglio essere l’ultimo dei falliti in una democrazia che un martire o la crème de la crème in una tirannia – per un individuo simile trovarsi all’improvviso su questa tribuna è un’esperienza un poco imbarazzante”), che rende il discorsetto di Bob Dylan una specie di incivile miagolio, poi l’affondo politico. “Credo che a un potenziale padrone dei nostri destini si dovrebbe domandare, prima di ogni altra cosa, non già quali siano le sue idee in fatto di politica estera, bensì cosa pensi di Stendhal, Dickens, Dostoevskij”. Magistrale lezione che ci fa capire, concretamente, perché l’etica sia figlia dell’estetica, una sua volgare variante. I discorsi degli scrittori al Nobel, di solito, sono lo specchio della loro opera. Per questo è necessario leggerli. Dicono che William Faulkner abbia scritto il suo discorso sulla carta intestata di un albero newyorchese, in volo verso Stoccolma, e che per vincere la tensione si sia ubriacato e ci abbia provato con la prima svedesina che passava. Deturpato dagli alcolici, però, il grande Faulkner, diede lezione di stile, “Signore e signori, sento che questo premio non è per me in quanto uomo, ma va al mio lavoro – il lavoro di una vita spesa nell’agonia e nella fatica dello spirito umano, non per la gloria e meno di tutto per il profitto, ma per creare dal materiale dello spirito umano qualcosa che prima non esisteva”. Formidabile. Poi c’è Yasunari Kawabata (Nobel nel 1968) che parla dei grandi poeti giapponesi, di Ryokan, il poeta folle che nel XVIII secolo “si isolò dalla volgarità contemporanea e si immerse nell’eleganza raffinata dell’epoca classica, avendo come soli compagni poesia e scrittura”, e Kenzaburo Oe, anni dopo, nel 1994, gli risponde, che dialogo tra titani (“Perché Kawabata ha deciso coraggiosamente di leggere quelle poesie esoteriche in giapponese davanti al pubblico di Stoccolma?”), cercando di comprendere l’identità del Giappone contemporaneo. Nel 2008 il francese Jean-Marie Gustave Le Clézio penetra “nella foresta dei paradossi” e si domanda, attaccando, “Perché scriviamo?”, mentre William Golding, lo scrittore de Il Signore delle mosche, nel 1983 si piglia in giro, “a prima vista, sono vecchio, bianco e barbuto, e di me avrete una visione ancora più oscura, profondamente oscura; oscura; oscura; oscura; dopo il tripudio del mezzogiorno, l’oscurità irrecuperabile, l’eclisse totale”. Saint-John Perse, invece, il massimo lirico del Novecento (che nessuno legge più), nel 1960 metteva il dito nella piaga che ora è una ulcera insanabile (“sembra esserci una crescente distanza tra l’attività poetica e una società sempre più asservita al materialismo”), e gemellava il poeta con lo scienziato, entrambi autori “di un pensiero disinteressato: per questo non possono essere considerati fratelli ostili. Esplorano lo stesso abisso, con metodi di indagine diversi”. Che genio. Ecco: chiudo con un auspicio editoriale e un rammarico. L’auspicio. Che un editore assembli i discorsi del Nobel per la letteratura di tutti i nobilissimi vincitori. Anche quello di Dario Fo – tra i più modesti – giganteggia rispetto all’analogo di Dylan. Il rammarico. Dovrebbe risorgere la mitica collana Utet dedicata a ‘i Nobel’. Lì, in forma sintetica, impacchettate elegantemente, abbiamo letto le opere di Semus Heaney e di Iosif Brodskij, di Ivan Bunin e di Claude Simon, di Eugene O’Neill e di Giorgio Seferis. Riesumarla è un dovere. Per il resto, lo sappiamo, è più lunga la lista dei grandi che il Nobel non l’hanno vinto (Rainer Maria Rilke, James Joyce, Marcel Proust, Franz Kafka, Giuseppe Ungaretti, Cormac McCarthy…) rispetto a quella di chi ha indossato l’alloro. Così va la storia, baby, la tirannia dei mediocri.