Cultural StereotypeReynolds: «Schiacciati dal sistema, condannati alla nostalgia: ecco perché il pop non ci salverà»

È il più grande critico musicale rock, ma prima di tutto è un sociologo e un critico della cultura. Secondo Simon Reynolds (in Italia per promuovere il suo libro “Polvere di Stelle”, dedicato all'epopea Glam) il web, la pop culture, la nostalgia per il passato, NON sono la soluzione

Con Energy Flash ha osservato la cultura rave raccontando il suo potenziale rivoluzionario e innovativo. In Rip It Up and Start Again ha analizzato il post-punk costruendo una vera e propria “opera mondo” sugli anni Ottanta. Soprattutto, ha coniato il termine che più di ogni altro descrive alla perfezione il tempo in cui viviamo: Retromania (recentemente ristampato da minimum fax). Lui è Simon Reynolds. Il più importante critico musicale del mondo ma, sopratutto, un pensatore innovativo che ha sempre usato i fenomeni musicali per indagare e capire la società. Reynolds è stato in Italia per una mini-tournée a supporto del suo ultimo libro, Polvere di stelle. Il glam rock dalle origini ai giorni nostri (minimum fax) dove – attraverso le storie di artisti come T.Rex e Slade, Suzi Quatro, Gary Glitter e Alice Cooper, New York Dolls e Roxy Music, oltre ovviamente a David Bowie – si ricostruiscono gli anni Settanta e le loro complessità. Lo abbiamo incontrato a Roma, in occasione del party natalizio della casa editrice. Una conversazione che parte dal Glam per capire in realtà come quel movimento, che ha rivoluzionato l’industria del pop trasformandola in quello spettacolo permanente e onnicomprensivo che affrontiamo giorno dopo giorno, ci aiuta a capire cosa vuol dire vivere nell’era di Donald Trump.

«Il Glam è stato un movimento fondato sullo show business e per lo show business. In fondo, una ribaltamento del concetto di autenticità che ha sempre marchiato il rock degli anni Cinquanta e Sessanta». Negli anni Settanta, infatti, si entra in quella fase della Storia che i critici hanno definito postmodernismo. Si comincia a parlare del mondo come simulacro. Di finzione. Di pervasività dei media. Lo spettacolo perenne in cui viviamo è ormai uno spettacolo inconsapevole da cui non leviamo mai lo sguardo: «Mio fratello mi ha portato a una partita di basket, ed è pazzesco come negli Stati Uniti (Reynolds è inglese ma da anni abita a Los Angeles, ndr) lo spettacolo non finisca mai. Non c’è un momento di pausa. Non c’è uno stacco. Se non stanno giocando, qualcuno sta facendo uno show in mezzo al campo. Tutto ad altissimo volume, altissima velocità». Questa ricerca della consapevolezza confligge con l’ecosistema mediatico in cui siamo immersi. C’è Facebook, ad esempio, dove ognuno di noi non solo genera contenuti di continuo – «Siamo ossessionati dai contenuti, e anche se pensiamo di fare un esercizio di conspavolezza, in realtà stiamo lavorando per Mark Zuckerberg» – ma può sopratutto essere ogni giorno chi decide di essere secondo la propria personale auto-narrazione. Esattamente come David Bowie che decide di inventarsi diversi alter-ego, cambiare forma, cambiare faccia, nome, essere chi preferisce essere. Lo show che non finisce mai. Il nostro show che non finisce mai. «Su Facebook le persone stanno recitando. Ma c’è una contraddizione di fondo. Perché è tutto molto scintillante e brillante, ma al tempo stesso chi scrive è anche nudo, esposto. Forse troppo esposto. In questo spettacolo che non finisce mai si scorgono delle disperate richieste di aiuto. Il nostro “public self” fa i conti con la totale nudità del nostro disagio. Quando sei una celebrità, tutto sommato, sei controllato e ogni mossa, anche quelle che ti mettono a nudo, è studiata nel minimo dettaglio».

Esattamente come David Bowie che decide di inventarsi diversi alter-ego, cambiare forma, cambiare faccia, nome, essere chi preferisce essere. Lo show che non finisce mai. Il nostro show che non finisce mai

Lo spettacolo parte dall’arte e abbraccia la politica. Nel libro compare più volte il termine spin doctor, la figura dell’esperto di comunicazione che lavora con i politici. Reynolds la usa in relazione a David Bowie e alle strategie di mercato per vendere il “personaggio Bowie”. Ma questo fenomeno è anche la storia di un rapporto di forza industriale che adesso non c’è più. Nel pop ci sono sempre meno soldi e la creatività non è più legata a una specifica istanza sociale. Faceva notare Valerio Mattioli in una conversazione con Reynolds pubblicata su Not, che “è proprio dagli ambienti working class che spesso vengono gli attacchi più espliciti alla retorica purista e ai concetti di autenticità e «orgoglio proletario»: il glam – che in buona misura fu composto da figli della classe operaia – è un caso tipico, ma se ci pensi è uno schema che tende a ripetersi con una certa frequenza. […] Mentre dall’altra parte a difendere i valori del vero «rock del popolo» hai un prodotto della borghesia come Joe Strummer, per dire”. Evaporate le classi sociali si è anche incrinata la cultura bianca egemonica e siamo in un nuovo scenario. «I musicisti bianchi non hanno mai avuto nessuna paura a prendere e appropriarsi della cultura nera. L’industria culturale ha sempre ragionato in termini di appropriazione. Oggi si è rotta quella catena dialettica per cui l’appropriazione generava qualcosa di nuovo e diverso. Negli Who, ad esempio, non c’è niente che non sia stato ispirato dal rhythm and blues, ma nel rhythm and blues non c’è niente che suoni come gli Who, per via della diversa rabbia, il diverso nervosismo e la frustrazione da sfogare in modo così esplosivo. Prendi l’hip hop. Ci sono esponenti bianchi, ma stanno ricalcando, non fanno qualcosa di “loro”. E prendi il fatto che moltissimi bianchi ascoltano e comprano hip hop e lo apprezzano, anche se probabilmente non si arriva a quei secondi e terzi livelli di lettura che legano la musica al suo particolare contesto».

Il libro da cui è partita questa conversazione, in originale, si chiama Shock and Awe. E infatti il Glam, che adesso può apparire come uno stereotipo, un pezzo da museo in quel supermarket dell’immaginario che è la Storia del Rock, si è basato sul concetto di shock. Un’idea che persiste ancora adesso. Solo che, così come lo spettacolo che non finisce mai, anche lo shock è continuo. Questo genera un ulteriore paradosso: quello che un tempo era visto come queer, strano e perturbante, oggi non solo è tollerato e assorbito dal mainstream, ma diventa quasi istanza conservatrice e moralista. Come se tutto quello che è sopra le righe non riesca più a essere portatore di istanze progressiste: «Forse perché ai giorni nostri non c’è niente di veramente shockante, o le persone per così dire progressiste fanno finta di non volersi far shockare da niente. In realtà, poi, concetti come rabbia, shock, infrazione dei tabù e parlare di quello di cui non si può o non si deve parlare, hanno fatto talmente tanto il giro da essere diventati strumenti retorici dell’Alt-Right. Lo spiega un libro molto interessante di Angela Nagle, Kill All Normies (Zero Books). Quello che negli anni Sessanta era progressista perché voleva dire attaccare un sistema di repressione, adesso diventa strumento per dimostrare un risentimento». Forse che per essere ribelle, oggi, si debba fare il giro e essere sostanzialmente una testa di cazzo? «La controcultura non attacca mai il mainstream, ma un’altra controcultura. Guarda i punk che ce l’avevano con gli hippie, ad esempio. Con questo non sto dicendo che l’Alt-Right è il nuovo punk (anche se qualcuno lo afferma, ndr). Sto dicendo che per shockare, oggi, devi avere posizioni odiose contro le donne, le minoranze». Dire tutto, dirlo come ti viene, cercare di shockare. «Comici “di sinistra” come Lenny Bruce e Richard Pryor non avevano paura di usare un linguaggio scatologico, ad esempio. Era, però, un linguaggio molto politico. Adesso purtroppo si è fatto talmente tanto il giro che paradossalmente non sarebbe così sbagliato avvicinare il modo di comunicare di Donald Trump più a Lenny Bruce che non a un politico. Non so se conosci il comico Andrew Dice Clay. È anche lui politicamente scorretto, odioso, di destra e viene costantemente attaccato dai liberal che, così facendo, vengono considerati come noiosi e moralisti. La gente lo difende perché il suo linguaggio è visto come “ribelle” contro le élite. Quando Trump ha vinto le elezioni, ho pensato che avrebbero effettivamente potuto eleggere Andrew Dice Clay alla Casa Bianca!»

«Siamo costretti a fare lavori di merda e sottopagati, siamo incastrati in una infelicità verticale che porta al collasso nervoso e alla depressione. Un vero e proprio disagio psichico che deriva dal soggiogamento politico e lo sfruttamento economico.»


Simon Reynolds

In effetti se c’è un altro punto di contatto tra la temperie culturale del Glam e oggi è la sensazione di vivere “alla fine dei tempi”. Capita quando si esce da un periodo di grandi utopie. David Bowie, aprendo la fase Ziggy Stardust, inaugura una sua importante conferenza stampa proclamandosi precursore del tracollo della civiltà occidentale. Oggi la domanda è proprio questa, cosa può esserci oltre Donald Trump? E cioè, come si supera il postmoderno? Simon Reynolds, in Retromania, parla proprio di impossibilità di immaginare un futuro e si lega alle teorie di Mark Fisher sulla nostalgia dei futuri perduti, la psichiatria e la depressione. Cosa può esserci oltre in un mondo che non sembra prevedere alternative? «Prima di morire, Mark (che si è suicidato nel Gennaio 2017 e che da Gennaio verrà pubblicato in Italia prima da Not, poi da minimum fax, ndr) stava scrivendo un libro dal titolo Acid Communism, dove andava verso una rilettura delle esperienze radicali dell’attivismo anni Sessanta. E a lui, degli anni Sessanta, non glien’era mai importato granché. Considerava quel periodo un cliché. Però stava recuperando quel tipo di pensiero, quel processo di costruzione di consapevolezza e l’idea comunitaria. I nostri problemi personali sono incastrati in strutture impersonali, e queste strutture ci schiacciano. Mark stava cercando di capire come radicalizzare il pensiero per aiutare le persone a stare meglio. È un modo molto “politico” di intendere anche la terapia. Siamo costretti a fare lavori di merda e sottopagati, siamo incastrati in una infelicità verticale che porta al collasso nervoso e alla depressione. Un vero e proprio disagio psichico che deriva dal soggiogamento politico e lo sfruttamento economico. Non ho la minima idea di come risolvere tutto questo, se ci siano alternative e cosa ci possa essere di ulteriore. Ma forse vale la pena riprovare a riproporre quel tipo di pensiero radicale un’altra volta. Mi sembra che siamo ancora dentro quel tipo di lotta. Solo che adesso le forze reazionarie sono molto più forti, potenti, organizzate e agguerrite. E propongono un ritorno a vecchie idee di società, di rapporti fra uomo e donna, di nazione. Ed è ovvio che certe idee facciano presa su persone sole, annoiate e alienate. Forse bisognerebbe ricominciare a fare qualsiasi cosa che ti dia l’idea di essere, per lo meno, vivo».

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