Nel giro di poche settimane il Medio Oriente ha dimostrato con la massima evidenza l’incapacità, o la mancanza di volontà, dell’Occidente di analizzarne con correttezza e intelligenza i problemi. Prima abbiamo avuto le proteste in Iran, poco dopo quelle in Tunisia. Paesi diversi e lontani, uno affacciato sul Mar Caspio l’altro sul Mediterraneo, uno sciita l’altro sunnita, uno retto dagli ayatollah l’altro da una democrazia perfettamente laica.
Nel caso dell’Iran ci siamo dilungati sul velo, il ruolo subordinato delle donne, i diritti dei cittadini, la teocrazia, la mancanza di democrazia. Insomma, i temi classici della nostra pubblicistica. Peccato che le stesse identiche proteste si siano ripetute in Tunisia, dove la democrazia c’è, i diritti dei cittadini trovano ottimi difensori (tanto che nel 2015 il premio Nobel per la Pace andò appunto al tunisino Quartetto per il dialogo nazionale, formato da sindacati dei lavoratori e degli imprenditori, dall’Ordine nazionale degli avvocati e dalla Lega per la difesa dei diritti dell’uomo) ed è lo stesso Governo a valorizzare le donne, da poco beneficiate da una riforma del diritto di famiglia che in Paesi vicini (in Egitto, per esempio) ha fatto scandalo.
Però, sorpresa sorpresa, le ragioni della protesta sono identiche: in Iran come in Tunisia la contestazione investe le riforme economiche messe in cantiere dal Governo. In Iran quelle promosse dal presidente riformatore Hassan Rouhani. In Tunisia quelle che il giovane premier Youssef al-Shaed vorrebbe realizzare dietro la spinta del Fondo Monetario Internazionale, che altrimenti non sgancia i 2,8 miliardi di dollari di prestito già concordati.
Sia in Iran sia in Tunisia, circa il 40% della popolazione ha meno di 25 anni. Ed è qui che dovremmo guardare, altro che velo
Noi occidentali siamo i soliti strabici, insomma. E siamo così innamorati dei nostri luoghi comuni da non notare, per esempio, che si ripete lo schema del recente passato, quando nel 2009 i giovani iraniani, contestando la rielezione di Mahmoud Ahmadinejad alla presidenza, diedero il via a quell’onda che proprio dalla Tunisia rimbalzò, nel 2011, per creare le cosiddette Primavere arabe.
Un po’ troppe le coincidenze, no? Allora eccone un’altra: sia in Iran sia in Tunisia, circa il 40% della popolazione ha meno di 25 anni. Ed è qui che dovremmo guardare, altro che velo. È quella demografica la vera bomba che scuote il Medio Oriente, altro che Isis o Hezbollah. È dei giovani che dobbiamo occuparci. E lo sapeva bene Graham Fuller, un agente e analista di alto livello della Cia che, passato alla docenza universitaria, aveva studiato con grande intelligenza il problema. Nel 2003 cercò di dare l’allerta ai suoi vecchi compagni dell’Agenzia con un rapporto (The Youth Factor: the New Demographics of the Middle East and the Implications for US Policy) in cui diceva: “A meno di un radicale cambiamento nell’approccio al Medio Oriente degli Usa, lo sviluppo delle attuali tendenze porterà le nuove generazioni a crescere con un atteggiamento di ostilità verso gli Usa e la loro politica. E questo strato ancora crescente di giovani potrebbe essere tentato di tradurre tali sentimenti in azione politica e in atti violenti”. Sappiamo come andò. George W. Bush preferì invadere l’Iraq con quell’altro genio di Tony Blair.
Il 30% della popolazione del Medio Oriente ha oggi meno di trent’anni. Stiamo parlando di 110-120 milioni di persone. Secondo i dati della Banca Mondiale, tra il 2000 e il 2010 la “forza lavoro” (che tecnicamente è composta da chi ha un lavoro e da chi lo cerca) nei Paesi del Nord Africa e del Medio Oriente è cresciuta del 40% e tra i giovani disoccupati quelli con un titolo di studio sono in larga maggioranza. Il punto è questo, il cuore del problema sono i giovani, mica le sciocchezze sul velo o sulle barbe.
Il Paese oggi più avanzato, in Medio Oriente, sulla strada della democrazia e della laicità è anche il Paese che ha prodotto la maggior quantità di foreigh fighters impegnati per l’Isis sul fronte siriano
Il caso della Tunisia dovrebbe esserci maestro. Il Paese oggi più avanzato, in Medio Oriente, sulla strada della democrazia e della laicità è anche il Paese che ha prodotto la maggior quantità di foreigh fighters impegnati per l’Isis sul fronte siriano: più di 7 mila, su una popolazione di soli 11 milioni di abitanti. Questo perché, alla fin fine, i giovani tunisini del movimento “Che cosa stiamo aspettando?” che animano i cortei contro l’aumento delle tasse e del prezzo dei carburanti e i loro coetanei finiti nell’Isis sono le due facce di una stessa medaglia, fatta di frustrazione e rabbia.
Se l’Occidente volesse fare qualcosa per il Medio Oriente subito e per se stesso domani, sfrutterebbe il proprio strapotere scientifico, politico ed economico per imporre a tutti questi Paesi una profonda riforma del sistema scolastico (capillare ma mediocre: la Banca Mondiale calcola che tra un alunno europeo e un alunno mediorientale della stessa età ci siano due classi di differenza a livello di apprendimento) e un’altrettanto profonda riforma del mercato del lavoro. Con quali soldi, si dirà? Be’, il Centro ricerche del Congresso Usa ha calcolato che le guerre in Afghanistan e Iraq, peraltro non ancora concluse, sono costate ai contribuenti americani 1.600 miliardi di dollari. Ma Linda Bilmes, economista di Harvard, ha rifatto i conti e sostiene che il costo effettivo sarà tra i 4 e i 6000 miliardi di dollari. Di cosette se ne fanno, con cifre come queste. E per fare un esempio più terra terra, pensiamo a questo: tenere un marine per un anno in Afghanistan, anche se sta chiuso nella base e non spara nemmeno un colpo, costa 4 milioni di dollari.
Ma preferiamo fare qualcosa per noi subito. Così vendiamo tonnellate di armi agli autocrati di turno, che così potrà sparare su un po’ di quelli che scendono pacificamente in piazza ed invogliare un po’ degli altri ad arruolarsi nell’Isis.