Liberi e uguali, vasto programma, ma con la proposta dell’abolizione delle tasse universitarie, Piero Grasso rischia di toppare: abolire quella tassa è regressivo e Leu vira verso un’involuzione da vecchio Pci, che non favorisce né libertà né uguaglianza.
Abolizione regressiva perché “regalare” la cultura ai figli dei borghesi, che possono permettersela, e porli sullo stesso piano del figlio dell’operaio che, se merita, ha tutto il diritto di avercela gratis, fa un piacere ai primi, non ai secondi. Le tasse, poi, non sono una tariffa, con la quale si copre il costo totale del servizio, che è in capo allo Stato, ma rappresentano un contributo richiesto al cittadino onde evitare l’azzardo morale; quel comportamento opportunistico per il quale, cioè, il contribuente, non sopportando un costo diretto, spreca o sovrasfrutta un bene collettivo, che non è infinito e universale: è proprio il caso del figlio del ricco che si “parcheggia” all’università, tanto quest’ultima non gli costa nulla. La psicologia ha dimostrato che diamo valore alle cose quando diamo loro un costo, anche simbolico. Chiedere un obolo al ricco, dunque, è socialmente giusto, anche per indurlo a valorizzare quel bene pubblico. Mentre è altrettanto giusto tendere alla riduzione del costo per i meritevoli che, se indigenti, possono e debbono usufruire gratis dell’università, a fronte dei loro risultati. Il loro rendimento è infatti la prova evidente che stanno saggiamente valorizzando quello che è un investimento della collettività su di una persona dalla quale sarà lecito aspettarsi un ritorno in futuro; perché il figlio di operaio che diventa ingegnere guadagnerà di più del padre, produrrà più ricchezza e, dunque, pagherà più tasse.
Le tasse, poi, non sono una tariffa, con la quale si copre il costo totale del servizio, che è in capo allo Stato, ma rappresentano un contributo richiesto al cittadino onde evitare l’azzardo morale. È proprio il caso del figlio del ricco che si “parcheggia” all’università, tanto quest’ultima non gli costa nulla
La gaffe di Grasso, però, indica di più. Indica le difficoltà per una sinistra che vuole richiamarsi ai valori tradizionali del socialismo, e che apertamente ha preso le distanze dal progetto di sinistra-liberale renziana, che bene o male sta trascinando il Paese fuori dalla crisi, a trovare una via credibile. Insomma, se la Terza via piddina e fu blairiana e clintoniana non va bene – la critica principale è che aumenta il Pil, ma non ridistribuisce -, quale via funzionerà, per evitare che proposte astrattamente giuste – aboliamo le tasse -, si traducano controintuitavamente in esiti che allargano le ineguaglianze, piuttosto che ridurle? Già il nome di Liberi e Uguali è un ossimoro perché, benché si tratti di una nobile citazione della sociologa Chiara Saraceno, più c’è libertà e meno c’è uguaglianza: lo notavano con la consueta acribia due insigni marxisti, Adorno e Horkheimer.
Se è sicuro che le ineguaglianze siano odiose e zavorrino perfino l’economia, più difficile capire quale uguaglianza è realistico perseguire, onde evitare scherzetti, proprio come quello del mantra sessantottino “Cultura gratis a tutti”. Quando è noto – come ha dimostrato recentemente Raffaele Alberto Ventura in “Teoria della classe disagiata” -, che la cultura è uno status symbol per ricchi e distribuirla gratis è uno scacco ai poveri. Da questo punto di vista, la teoria filosofica sull’uguaglianza è corposa e complessa e, forse, non è un caso che Grasso, fino a ieri nel Pd, abbia commesso questo errore. C’è stata un’adeguata elaborazione concettuale da parte di Leu o, forse, più un’ansia di contrapporsi a Renzi a prescindere?
Il più importante filosofo dell’uguaglianza del secolo scorso, John Rawls, distingueva fra fairness and justice, ponendo l’accento sulla necessità di garantire uguali opportunità, senza innescare un livellamento verso il basso. Aristotele distingueva fra la giustizia distributiva, che divideva secondo i meriti, e quella retributiva, che integrava per indennizzare chi avesse subito qualche torto: è quest’ultima ad aver ispirato l’egualitarismo sessantottino che ha probabilmente prodotto più danni di quanti non ne abbia risolti. Mi riferisco alle teorie delle “discriminazioni positive”, quando si tratta di aiutare categorie che abbiano subito torti dalla società: donne, poveri, migranti. Vasto programma, per l’appunto, a patto di non zavorrare chi invece merita di più. E non è un caso che, per i Greci, la democrazia si informasse all’uguaglianza formale, l’isonomia, mentre l’isomoria, quella retributiva, era perseguita dai tiranni; così come non è un caso che in nome dell’ideale della giustizia (e della democrazia) sostanziale, i comunisti abbiano finito per avallare sistemi dove non c’erano né democrazia né giustizia né libertà, ma uguaglianza nella povertà e nell’indigenza. Insomma, Liberi e Uguali fa bene a puntare su temi come giustizia e ridistribuzione, ma se non si trova la chiave giusta, c’è il rischio di ripetere errori del passato. Ci può essere uno spazio alla sinistra del Pd, ma non lo può riempire chi velleitaristicamente declina temi da ‘68. Libertà nell’uguaglianza delle opportunità è una sfida del futuro, non del passato. E la vinci, facendo pagare le tasse ai ricchi, non togliendole nel nome della Kultura.