Susanna Nicchiarelli fa la regista da quasi quindici anni. Ha già realizzato corti, mediometraggi, lungometraggi, documentari, ma per il suo ultimo film ha fatto una scelta che a molti potrebbe sembrare strana: ha scelto di girare un biopic dedicato a un personaggio iconico della musica del Novecento, Christa Päffgen, che tutti conoscono come Nico, solo che ha deciso di farlo in un modo originale raccontando un periodo della vita di Nico che il grande pubblico non conosce. Quando pensiamo a Nico, infatti, pensiamo tutti alla fine degli anni Sessanta, a Andy Warhol e alla celebre banana gialla da lui disegnata per la copertina del primo album dei Velvet Underground. Era 1967 e l’artista di cui parla il film di Susanna Nicchiarelli, che non a caso si intitola Nico,1988, non era ancora nata.
«La verità è che a 25 anni non sai chi sei, stai ancora cercando», mi racconta a Locarno, dove il Festival del Pardo l’ha invitata per l’ultima edizione de L’immagine e la parola, un evento di workshop e proiezioni che precede di qualche mese i festival e che quest’anno era dedicato alle Voci di donne. «Questo mito che a 25 anni è il periodo più felice della tua vita e che poi è tutta in discesa non è vero, non è così. A 25 anni non hai ancora trovato il tuo posto del mondo», continua decisa rispondendo alla domanda forse più ovvia che le si può porre dopo aver visto il suo film.
Perché hai voluto raccontare un’icona come Nico proprio in quegli anni?
Perché anche Nico, a 25 anni non era nulla, a 30 ha cominciato a scrivere la sua musica, a 40 era un’artista, era qualcuno. Che fosse meno famosa non ha nessuna importanza. Lo dice anche lei, in una frase che uso anche nel film: «Sono stata al top e sono stata in fondo, ed entrambi i posti sono vuoti». È una frase vera di Nico e significa che entrambi i miti del successo e dell’insuccesso sono miti vuoti.
Eppure proprio su quelli si orientano i biopic tradizionali…
Sì, sul successo e sulla decadenza, il che per me è una lettura estremamente superficiale della vita delle persone, soprattutto dei musicisti, perché la vita di un musicista è fatta di quotidianità, di suonare tutti i giorni, magari una sera in un teatro bellissimo come si vede nella scena del concerto a Parigi, poi magari il giorno dopo in un locale con quattro persone. La vita di un musicista è così, caricare il furgoncino degli strumenti, andare, venire, dormire dove capita, in alberghi, case, divani. Fare il proprio lavoro per un’artista è questo, non è l’immagine che si vende sulla copertina di un album.
Cosa hai scoperto affrontando questo personaggio?
Lavorando su Nico devo dire che ho scoperto soprattutto il coraggio. Stavo già lavorando al film quando ho cominciato a sentire in una intervista quel discorso che fa nella scena finale, alla radio. L’intervistatore le chiede se le dispiace avere poco pubblico e lei risponde “Non me ne frega nulla, sono molto selettiva nei confronti del mio pubblico, non devo piacere a tutti”. Questa è una cosa che Nico diceva spesso, ma ci vuole un grandissimo coraggio nel dirlo per un’artista che faceva una musica stranissima, fuori dal suo tempo.
Che strada aveva preso?
Seguiva la sua strada, aveva trovato la sua chiave artistica e creativa. Non si lasciava confondere dal fatto che a sua musica non fosse più di moda, o non era ascoltata dalle folle. E conta che era un momento — gli anni Ottanta — in cui c’era Madonna. Quello che andavano ad ascoltare le folle era veramente tutt’altro. È proprio questo lo spirito coraggioso che intendo, è quello che si ha quando si fanno le cose importanti.
Intendi il non desiderare che ti apprezzi più gente possibile?
No, affatto, quello lo vuoi, è ovvio, ma al tempo stesso non sei disposto a fare compromessi su quello che sei e quello che fai per arrivarci. Questo è il punto centrale della figura di Nico e credo che sia un insegnamento prezioso e coraggioso per tutti quelli che fanno un lavoro creativo. E in ogni caso anche la fama è molto relativa.
Cosa intendi?
Si dice che il disco con la banana dei Velvet Underground abbia venduto 300 copie, ma che ognuno di quelli che lo comprarono poi fondò una band. Gli stessi fenomeni della Factory e dei Velvet Underground non è che fossero dei fenomeni mediatici di massa, non era come star di X Factor che al giorno d’oggi la gente ferma per strada. Erano dei concerti, degli spettacoli live, era quello che ha creato anche il tempo che è passato. E quel coraggio è anche avere fiducia del fatto che se fai un certo tipo di ricerca artistica, piano piano, nei luoghi giusti, le cose crescono e arrivano a cambiare la vita delle persone, a cambiare la vita di altri artisti che a loro volta fanno altre cose.
Nel mondo del cinema, che è il tuo mondo artistico, che ruolo ha questo coraggio?
Nel cinema ci sono tante donne e tanti uomini coraggiosi che sfidano la spinta alla commercialità. Nico diceva che odiava questa parola, e spesso anche nel cinema è un’arma che ti si ritorce contro. Perché nessuno sa cosa funzionerà, cosa farà incassare un film, per cui un regista può trovarsi spinto in direzioni varie e rischia di perdersi perché magari c’è chi gli fa credere che facendo una cosa piuttosto che un’altra incasserà di più. Ma in realtà non lo sa nessuno, per cui è meglio forse puntare tutto sulla coerenza della propria ricerca artistica, come faceva Nico.
Però qualcuno al pubblico di massa ci arriva…
Ci sono dei fenomeni, almeno in Italia, di cinema estremamente orientato al commerciale, film molto promossi, per cui vengono spese per la promozione cifre che sono quelle che può costare un piccolo film indipendente e che poi fanno tantissimi soldi, perché la gente li va a vedere in massa, ed escono in tantissime sale, e ovviamente anche nei multisala. Ma quello è un altro mondo. Poi ci sono alcuni autori che riescono a fare i propri film, anche belli e importanti, e riescono ad arrivare con quelli al grande pubblico. Però quello è un percorso difficile e forse più difficile oggi che in passato.
Quali sono i principali problemi del settore in Italia?
Probabilmente i più grandi problemi sono quelli distributivi. Perché i film considerati difficili, anche se vincono premi e hanno la migliore critica possibile, comunque escono spesso su una scala molto piccola. Forse giustamente, intendiamoci, non è il mio mestiere. Si investe poco nella promozione e si punta tutto su poche sale cercando di fare andare bene quelle, e quelle sale in effetti possono andare bene, tanto che tutto sommato io sono contenta dei risultati di Nico, tenuto conto del fatto che è uscito in un numero limitato di copie. Se fai questo genere di film in Italia spesso lavori su piccoli numeri, e certo, un po’ ti dispiace, perché vorresti che ti vedesse più gente possibile, vorresti almeno provarci ad arrivare a un pubblico più grande. Io credo che valga la pena rischiare di più, promuovere di più i film di qualità e cercare di farli arrivare a un pubblico più grande. Ma sono ben conscia che gli investimenti nella promozione sono investimenti rischiosi, che poi devi recuperare.
C’è qualcosa che invece ti compensa per il piccolo dispiacere di arrivare a meno gente rispetto alle grandi produzioni commerciali italiane?
Sì, assolutamente, quello che mi compensa questo dispiacere è che questo film è stato venduto in tutto il mondo, che ora uscirà negli Stati Uniti, in Francia, Belgio, Olanda, Spagna, Germania… e anche in Cina e in Brasile…
Qual è la differenza con l’Italia?
Il problema dell’Italia è che moltissime sale hanno chiuso e sono rimaste in poche quelle che fanno cinema di qualità. Quindi per forza di cose esci su una scala più piccola. È chiaro che la Francia è un paradiso per il cinema così detto “art house”: le sale ci sono, sono sostenute dallo Stato e quindi questo tipo di cinema più culturale e non semplicemente commerciale ha un suo circuito ed è molto più forte. Poi, vediamo come va. Ma dal mio punto di vista, anche solo l’avere un pubblico piccolo in ogni parte del mondo è un grandissimo successo. Perché alla fine se sommo tutte le persone che lo vedranno, tra le sale in tutto il mondo e i festival, non sono certo poche. Senza contare quanto sia prezioso incontrare pubblici diversi, critici di diverse nazionalità, anche giornalisti. I film italiani iper commerciali sono difficilmente esportabili, mentre i film indipendenti spesso sono venduti all’estero ed hanno così la possibilità di proseguire la loro vita.
Quindi non faresti cambio?
La domanda non ha molto senso, io faccio quello che so fare, quello che posso fare. Non credo che saprei fare altro. Comunque, se mi dovessero chiedere di fare a cambio facendo 5 milioni di euro solo in Italia ma senza possibilità di andare in giro per il mondo a portare il mio film, non saprei che dire… è bello portare il proprio film in giro per il mondo, mi dispiacerebbe rinunciarci. Ma non è facile rispondere, forse è impossibile. Diciamo che vorrei tutte e due le cose.
Credi che si sia una ricetta per cambiare le cose in meglio?
Secondo me più hai le sale e gli spazi in cui queste pellicole ci sono, più la gente ci va. Perché se escono tanti piccoli film e uno prende l’abitudine di andarli a vedere, senza sapere molto e senza leggere mille articoli sui giornali, allora sarà più probabile che si stupirà, che vedrà roba bella. Più scelta c’è e più il pubblico si educa, si abitua a vedere cose diverse, a tentare, a ritentare.
E invece ora?
Ora in Italia la scelta è quasi sempre univoca, perché se vivi in provincia spesso c’è un solo cinema nella tua città che fa vedere questo genere di film, magari un giorno solo alla settimana. Tu magari ci vai, ma appena vedi un film che non ti piace non ci torni più. Se invece l’abitudine si fa diffusa, io credo che ci continui ad andare, ti abitui, ti incuriosisci. La delusione fa parte dell’esperienza del fruitore, anche perché il valore artistico di un prodotto culturale è una cosa che si decide nel tempo, che decide una comunità, bisogna che il pubblico veda tanti film diversi tra loro, che ne parli, che abbia tante alternative, che possa vedere sia i film belli che quelli meno belli per discuterne e farsi un’opinione. Più varietà c’è nell’offerta meglio è per tutti.
Tu come scegli cosa andare a vedere?
Tantissime volte io vado al cinema seguendo consigli di amici e di persone di cui mi fido che me ne parlano bene. Molte più volte di quando ci vado perché mi ha conquistato il trailer. Però perché questi processi si inneschino ci vogliono delle sale che abbiano tempo per far crescere il loro pubblico. Per esempio, in Francia si fa moltissima multiprogrammazione.
Che significa?
Proiettano tanti film diversi durante la giornata. Questo ti permette di tenere i film di più a lungo in sala e di dar loro la possibilità di crescere con il passaparola, cosa che ora, quanto meno in Italia, è molto complicata e le grosse major e i grossi distributori non vedono di buon occhio la multiprogrammazione. La sala che fa multiprogrammazione, e magari tiene un film piccolo e un film grosso, mentre il film grosso scende nel tempo, perché più basato su pubblicità e esposizione mediatica, quello piccolo sale, perché il suo diffondersi è più legato al passaparola che alla promozione diretta. E così si riesce a mantenere un equilibrio, offrendo così anche ai film piccoli la possibilità di crescere e di essere visti.
In questo contesto che ruolo hanno le piccole sale come per esempio il Beltrade, cinema di quartiere di Milano che tra l’altro riproporrà proprio il tuo film a partire da oggi, martedì 20 marzo?
Sì, guarda, ti dico solo stasera che ci saremo anche io e Trine [l’attrice che interpreta Nico, ndr] anche se solo in via telematica. E pensa che Trine non ha partecipato a nessuna presentazione in Italia, tranne nella settimana dell’uscita. Ha accettato con piacere, perché il Beltrade ci ha tenuto tantissimo al nostro film. Il film è uscito ad ottobre e a Milano è stato tanto, prima al Centrale, e dopo lo ha preso il Beltrade e lo ha tenuto fino a Capodanno. Ci ha fatto addirittura la maratona di Capodanno. Per cui al Beltrade anche lei si è molto affezionata.
Può essere l’inizio di qualcosa di confortante per i cinema indipendente italiano?
Io credo molto in queste realtà che ho incontrato sia in città piccole che in quelle grandi. Mi hanno dato tantissima speranza, perché la mia impressione è che la forza che hanno questi luoghi sia maggiore di quella che hanno le grandi sale. Hanno più forza, fidelizzano il proprio pubblico, costruiscono una specie di comunità. Altri esempi così sono per esempio il Rosebud di Reggio Emilia, l’Edison di Parma, l’Arsenale di Pisa e tante altre… dove la gente va perché si fida della loro selezione e del loro programma e gli eventi, il succedersi dei film, tutto ha senso, è pensato e studiato. L’impressione è che questi piccoli cinema siano i più forti di tutti. Ti dico la verità, questi luoghi sono il motivo per cui faccio cinema. Io continuo a credere nella sala, nel luogo di incontro, nello spazio in cui la gente si ritrova, parla dei film, li condivide. Questi sono i cinema dove ancora hai questa sensazione: che esista una comunità composta da quelli che il cinema lo amano, sia di quelli lo fanno che di quelli che lo vanno a vedere. E anche oltre al cinema, da punto di vista esistenziale, credo che siano dei luoghi importantissimi, che contribuiscono a ricostruire il tessuto sociale e a dare senso alle esperienze vissute in comune ad altra gente.
Ci sono altri cinema del genere che vuoi ricordare?
Amo tantissimo anche il cinema di Nanni Moretti, il Nuovo Sacher, che ha ancora questa vita. C’è lui che sceglie i film, quindi tu vai e ti fidi. Organizzano eventi, dibattiti, presentazioni, fanno i film in lingua originale. Il pubblico del Sacher è una comunità. Un altro posto che funziona molto su queste strategie è il Postmodernissimo di Perugia o l’Apollo 11 di Roma. Ma ci sono tante realtà, e davvero ho paura a fare gli elenchi perché ne dimentico sicuramente qualcuna. Questi posti sono gestiti sempre da persone appassionate, e l’entusiasmo loro e dei loro spettatori è un segno che il cinema di qualità ha un pubblico in Italia, un pubblico che spero possa estendersi di nuovo, e sempre di più.