Tra tutti i grandi scrittori italiani del Novecento che rischiamo di non portarci dietro in questo nuovo millennio, ingiustamente dimenticati in fondo alle liste dei libri da leggere durante le vacanze scolastiche, consigliati distrattamente da professori che manco li hanno letti, e condannati per colpa della mediocrità generale a una lenta sparizione dalle mensole e dai comodini degli italiani, il nome di Luciano Bianciardi è in cima alla lista.
Non che sia l’unico, intendiamoci. Non è da solo ed è in ottima compagnia, eppure resta il il caso più strano e assurdo, perché quel maremmano colto e vizioso, se solo gli avessimo dato retta e avessimo continuato a leggerlo, oggi potrebbe essere per noi il miglior punto di vista per capire dove mettere i piedi nel cammino che stiamo facendo nella giungla della precarietà, ma anche, contemporaneamente, il miglior cannocchiale per vedere un po’ più in là, verso un orizzonte utopico radicale che un po’ per il maltempo un po’ per pigrizia, abbiamo perso di vista da un bel po’.
Da Il lavoro culturale a L’integrazione; da La battaglia soda ad Aprire il fuoco; da I minatori della Maremma a Da Quarto a Torino, fino ad arrivare al suo più formidabile dei romanzi, La vita agra, Luciano Bianciardi è sempre riuscito a dribblare e spiazzare tutti, tanto il pubblico che si meritava ma che ebbe solo in parte, quanto l’accademia, che avrebbe avuto bisogno di lui come un gabinetto otturato necessita di un prodotto anti spurgo. Ma che a lui preferì i Moravia e i Pratolini.
I primi, gli accademici, pur essendo da sempre segretamente ingolositi e attratti dalla sua lingua tagliente, divertita e insieme lucidissima, non riuscivano a digerire e non forse non avrebbero mai potuto accettare quel sua sotterraneo radicalismo, di cui peraltro avrebbero avuto tanto ma tanto bisogno per non mummificarsi; il pubblico, al contrario, che di quel radicalismo avrebbe avuto bisogno, al pari dei suoi fuochi d’artificio linguistici e del suo sguardo barricadero, si è sempre spaventato di fronte a tutta quella ciccia e a quella libertà fantasiosa e anarchica. Non la reggono tutti, in effetti.
La verità però, quella brutta per davvero, è che Bianciardi non lo ha letto praticamente nessuno. E anche se la pubblicazione in grande stile di questo Il cattivo profeta, una nuova edizione meridiana di tutte le sue opere letterarie (rispetto ai due Antimeridiani Isbn, ormai da collezione, mancano solo gli scritti giornalistici, purtroppo, perché sono di una bellezza clamorosa al pari solo della loro efficacia) edita l’8 marzo dal Saggiatore, ci ridà la possibilità di immaginare che magari arriverà qualche faccia nuova ad arricchire la schiera dei suoi ammiratori, di speranza vera, in realtà, è lecito averne ben poca.
Non c’entra il fatto, pur vero, che qui in Italia i libri invece che leggerli ce li facciamo raccontare, quando va bene. C’entra, al contrario, proprio lui, Luciano Bianciardi, quel toscanaccio virulento e caciarone, che nella sua breve vita ha fatto tutto il necessario per restare fedele a se stesso. È stata quella sua specie di fiammella di onestà intellettuale a far sì che si sia bruciato uno a uno tutti i ponti che lo avrebbero potuto tenere legato alla terra ferma, ovvero a quel mondo di intellettuali baccelloni che frequentava disprezzandoli e che potevano mettere nell’orecchio ai posteri una buona parola per lui.
Dopo la Vita agra tutti quelli che avrebbero dovuto detestarlo lo adoravano, lo invitavano alle feste, lo facevano sbronzare. La buona società lo credeva innocuo, come una tigre costretta nello zoo da far vedere ai figlioletti la domenica mattina. Ma non lo era. E quando se ne accorse, probabilmente già durante le tante presentazioni che fece per l’Italia, quando si scocciava a sentirsi un attore che recita sempre la stessa parte, iniziò a covare il bruciore di chi si convince di aver perso in partenza e si ammazzò a colpi di grappa gialla.
Bianciardi non era in vendita, ed è anche per questo che oggi, in un mondo dove tutti hanno un prezzo e in cui l’ego ha sostituito il dollaro come moneta di scambio corrente, sarà difficile che possa riprendersi veramente l’attenzione che merita, ben oltre le pagine de La vita agra. E dunque, no, non basterà questo Gigameridiano per riportarvelo sui comodini. Non basterà perché Bianciardi non può che essere indigesto in un mondo come quello in cui viviamo, dei selfie e delle pose, popolato da mostrificazioni e subumanità che non vorrebbe mai vedersi davanti.
Non ce la farà a riprendersi i lettori che si meriterebbe, che tra l’altro sono precari proprio come lui, perché Bianciardi è un ossimoro vivente, non è certo un abito che sta bene con tutto, ed è radicale, di quel radicalismo che non si può indossare per posa, bensì di quello che ti occupa il cervello e il cuore.
Questo sessantottino risorgimentale, cittadino di paese, piccolo borghese straccione, radical-popolare, bombarolo pacifista, con tutte queste contraddizioni mette insieme una filosofia unitaria e insieme meravigliosamente contraddittoria, quella che lui stesso definisce con una apoteosi di contraddizione goduriosa un Neocristianesimo a sfondo disattivistico e copulatorio. La trovate nella vita agra ed è luminosa da accecare. È uno dei brani più potenti che potete trovare in un libro italiano del Novecento. Occhio però, perché non ci siete più abituati a tutta questa schiantante bellezza, rischiate di farvi male.