Petrone Group, eccellenza del farmaco made in Napoli: «I dazi di Trump non fanno paura, e il problema si chiama Cina»

850 addetti in cinque Paesi e attività che spaziano dal commercio alla logistica, dai test di laboratorio alla produzione dei bugiardini, dai centri di riabilitazione alle farmacie stesse. Così è nata e si è sviluppata nel mondo una realtà d’eccellenza italiana

Qualcosa si muove, anche nel Mezzogiorno. Anzi, forse in questo caso sarebbe meglio dire “qualcuno”. Perché Petrone Group, conglomerato aziendale di trenta realtà che operano nell’ambito farmaceutico e parafarmaceutico, vive della sua capacità di andare: verso nuove produzioni, nuove opportunità di business, nuovi mercati in giro per il mondo. «Ricorda la pubblicità di quella famosa caramella che si definiva il buco con la menta intorno? Ecco: noi siamo la “menta intorno” dell’industria farmaceutica», racconta Pierluigi Petrone, figlio del fondatore e attuale titolare del gruppo. «Fu un’intuizione di mio padre Carmine, nel 1965, a far cominciare tutto. Fu lui, quando divennne titolare della farmacia del nonno, a iniziare un percorso di crescita rifornendo di farmaci le navi dell’allora sindaco di Napoli e armatore Achille Lauro».

È da lì, idealmente, dalle navi che solcano mari e oceani, che nasce la vocazione al commercio estero e all’internazionalizzazione della Petrone Group di oggi: 850 addetti in cinque Paesi, 1.100 con indotto e collaboratori, e attività che spaziano dal commercio alla logistica, dai test di laboratorio alla produzione dei bugiardini, dai centri di riabilitazione alle farmacie stesse. « Siamo un’azienda che ha trasformato il core business dal commerciale all’industriale, sino servizi per le aziende», spiega Petrone.

In un Paese come l’Italia, primo in Europa per manifattura farmaceutica, la chiave è l’export, la capacità di penetrare nuovi mercati. E Petrone l’ha fatto, nel conto degli anni, aprendosi rotte commerciali e produttive prima in Europa (in Spagna nel 1998, in Iranda nel 2002) e poi in giro per il mondo. Da Singapore, vero e proprio hub asiatico del gruppo, sino agli Stati Uniti, cuore pulsante del settore farmaceutico mondiale, che da solo fa il 70% di tutto il mercato globale. Non è solo quello, però. «Il mercato americano per noi è molto importante, certo», spiega Petrone. «Ma è anche un mercato relativamente semplice da attaccare: sono 52 Stati che parlano la stessa lingua, con la stessa moneta, e con un agenzia nazionale, la Food and Drug Administration (FDA) molto veloce e sinergica. Meglio dei 27 Stati europei, senza lingua comune, con diverse monete e con un Ema (European Medicines Agency) molto più lenta e burocratica».

In un Paese come l’Italia, primo in Europa per manifattura farmaceutica, la chiave è l’export, la capacità di penetrare nuovi mercati. E Petrone l’ha fatto, nel conto degli anni, aprendosi rotte commerciali e produttive prima in Europa e poi in giro per il mondo. Da Singapore agli Usa

Altro che era dei dazi di Trump, insomma, c’è ancora da aprire e integrare il mercato europeo, piuttosto. «A me America First non fa paura», continua Petrone. «Certo, Trump dovrebbe capire davvero quali sono i Paesi amici e chi siano i veri nemici del libero commercio e della concorrenza leale». Ogni riferimento alla Cina non è casuale. «È il mercato più difficile che c’è», dice Petrone, «con barriere all’ingresso enormi, cosa che nell’industria del farmaco si giustappone a una regolamentazione molto severa, nel caso si propongano delle tipologie di farmaci completamente nuove. Se già è difficile penetrare la Cina col cibo o con altri prodotti di largo consumo, figuratevi quanto può esserlo per noi».

Tuttavia, è anche un mercato con potenzialità enormi, in cui anche piccole nicchie equivalgono a grandi numeri: «In questo momento sono a Singapore, per il forum Asean Ambrosetti – racconta Petrone – . Io faccio parte del board internazionalizzazione di Confindustria: è importante presentare ciò che il nostro sistema Paese può esprimere. Ed è fondamentale, soprattutto, che questa rappresentazione arrivi nel Far East».

Certe cose cambiano di continuo, altre rimangono sempre uguali: l’atavica incapacità del sistema italiano di “fare squadra” e di presentarsi come un tutt’uno di fronte a governi e grandi buyer internazionali è una di quelle cose che non cambiano mai. «Noi italiani siamo un popolo di grandissimi imprenditori, presi singolarmente», spiega Petrone. «Ma gli altri ci superano proprio per la loro capacità di essere Sistema Paese. A volte, con Confindustria, andiamo in Paesi che per farti investire nel loro territorio ti offrono fiscalità di vantaggio, infrastrutture veloci e a basso costo, condizioni di lavoro favorevoli all’impresa. Che l’italia non riesce a replicare questo tipo di approccio è un dato di fatto. Secondo me, se noi italiani pensassimo più in grande e più insieme, potremmo fare cose eccezionali».

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