Dittature? Tutta una questione di cultura. Il primo impegno di un governo che non vuole cadere al primo soffio dell’opposizione è dominare la comunicazione, organizzare gli istituti culturali, asservire a sé gli intellettuali – notoriamente, brava gente, gente pavida. In un libro pubblicato da poco per la Harvard University Press, The Nazi-Fascist New Order for European Culture (pp.370, $ 39.95), Benjamin G. Martin, incarnazione del ricercatore globetrotter (laureato alla Columbia, insegna a Stoccolma), espone questa tesi: il “patto” tra Fascismo e Nazismo fu essenzialmente culturale.
D’altronde, i rispettivi leader, Hitler da un lato (pittore dalle ambizioni frustrate) e Mussolini dall’altro (giornalista d’assalto e scrittore di pregio: Elio Vittorini, nel 1933, quando ancora indossava la camicia nera, scriveva, riferendosi a Vita d’Arnaldo, «queste dieci pagine – è straordinario ma è così – mi ricordano le duecento del più bel romanzo, forse, di Tolstoj, del romanzo che s’intitola Infanzia») avevano il vezzo dell’intellettuale. Tra i tanti, un esempio spiattellato da Martin è indicativo. Siamo nel 1935, Mostra del Cinema di Venezia.
La Coppa Mussolini – così la dizione del trofeo, fondato nel 1932, assegnato dal 1934, soppresso dopo la Seconda guerra – va a Casta diva di Carmine Gallone e, come miglior film straniero, ad Anna Karenina, megaproduzione hollywoodiana con Clarence Brown alla regia e Greta Garbo nei panni della donna fatale. «Mettere le mani sul cinema: questo era il primo obbiettivo culturale dei dirigenti nazisti. Goebbels e Hitler erano ossessionati, letteralmente, dal cinema, come gli adolescenti americani lo sono dai social media. Convinti che il cinema fosse il principale motore per influenzare la cultura del loro tempo, cercarono di avere il controllo della produzione cinematografica europea».
Continua a leggere su Pangeanews.