Per quanto lo stesso Spike Lee abbia più volte dichiarato di aver concepito il suo The BlackkKlansman come un poliziesco venato di humour nero, in realtà di generi al suo interno questo film ne ha parecchi di più e, se per lunghi tratti somiglia più a un film di supereroi, per altri ancora è una tipica commedia nera a la fratelli Coen, mentre per altri invece è addirittura un thriller d’alta tensione.
Un film che divide il mondo in due come un western: da una parte i superbuoni, un nero e un ebreo, minoranze per eccellenza in un mondo dominato dal razzismo e dall’antisemitismo, dall’altra i cattivoni, ignoranti, razzisti, maldestri e idioti, in una sfilata di personaggi macchiettati, iperbolizzati e portati all’estremo. Una masnada di stili e di generi che ha però un fil rouge che non lo abbandona quasi mai: la farsa. Sì, perché The BlackkKlansman, almeno per 120 minuti su 135, non si prende praticamente mai sul serio.
Come tutte le farse, anche questa mette in scena personaggi macchiettati e sostanzialmente piatti. Succede praticamente a tutti, per primi ai buoni senza macchia e senza paura. Da quel Ron Stallworth, primo poliziotto afroamericano di Colorado Spring e primo e unico afroamericano ad essersi infiltrato nel Ku Klux Klan, interpretato da John David Washington, che si sfoga a colpi di kung fu nell’aria, fino a quell’altro, quel Philip Zimmermann che nel film è il suo alter ego bianco, incaricato di interpretarlo negli incontri dal vivo con i membri del KKK, un ebreo non praticante, interpretato da Adam Driver, che più la situazione sembra sfuggirgli di mano più sembra divertirsi.
La stessa cosa succede ai cattivi, a quella banda di smandrappati formata dagli esponenti della sezione locale del KKK, una banda di idioti che Spike Lee si diverte, ogni tanto persino in modo un po’ troppo facile, a mettere in ridicolo costantemente. E infatti si ride spesso e si ride di gusto, ma sempre con le mani che sudano per una tensione costantemente palpabile, la costante attesa di qualcosa che prima o poi arriverà a far saltare tutto.
Spike Lee non la manda a dire e butta giù direttamente la porta a calci lanciando nel corridoio un candelotto di dinamite a miccia corta, che esplode in faccia allo spettatore in pochi istanti
In molti sottolineano come il film sia tratto da una storia vera. Ma la realtà è che della veridicità degli eventi narrati, allo spettatore, non gliene frega niente dall’inizio alla fine, tanto che mettersi a verificare cosa sia vero e cosa sia falso, in questo film, è una missione da gonzi. Lo dichiara lo stesso Spike Lee fin dall’inizio, quando un geniale cameo iniziale di Alec Baldwin, prestato per pochi minuti alla causa del suprematismo bianco, mette in scena la registrazione di un messaggio razzista.
La messa in scena di una messa in scena dentro la messa in scena. Un cortocircuito che spezza definitivamente il rapporto verità/menzogna e che ritorna anche nel finale, quando Spike Lee si ritrova a giustapporre al messaggio suprematista del White Power, un altro messaggio suprematista, quello del Black Power, in un montaggio alternato serrato che butta nella mischia addirittura il celebre e decisamente reazionario The Birth of a Nation, film muto girato negli anni Dieci del Novecento da David Wark Griffith.È il punto più alto del film, e anche se l’humour nero continua senza interruzioni, la tensione si alza mentre gli eventi si susseguono rocamboleschi.
Eppure, come in ogni commedia nera fatta per bene, anche in The BlackkKlansman a un certo punto lo spettatore si ritrova faccia a faccia con la realtà, durissima e crudissima, e capisce che non c’è proprio nulla da ridere. Lo scontro è frontale e fa parecchio male. È così che, dalla finzione cinematografica delle farsesche peripezie dei nostri supereroi e di quelle rocambolesche dei loro nemici imbecilli, Spike Lee ci porta direttamente nella realtà.
E lo fa non certo dischiudendo lentamente un malchiuso portone. No, no, tutto il contrario, Spike Lee non la manda a dire e butta giù direttamente la porta a calci lanciando nel corridoio un candelotto di dinamite a miccia corta, che esplode in faccia allo spettatore in pochi istanti sotto forma di immagini reali filmate nel 2017 a Charlottesville, quando un pazzo vero, su una macchina vera, si gettò nella folla vera che manifestava contro i suprematisti bianchi e l’ascesa allarmante del razzismo che stava — e sta — vivendo l’America.
Il messaggio è chiaro: il razzismo è lungi dall’essere scomparso. È tra noi, e sta crescendo, così come la violenza di chi lo professa, che nella realtà sono personaggi lontani dai quasi tranquillizzanti gonzi della sezione del Klan di Colorado Spring. E l’effetto funziona. Lo spettatore, attirato come un topolino dal formaggio nella trappola di Spike Lee, viene travolto da una cannonata in faccia: non c’è più nulla da ridere, l’antirazzismo non è un gioco e noi non viviamo in un film. Il pericolo è ancora qui, ugualmente brutto e ugualmente meschino come sempre è che tocca a tutti mettere sul piatto il proprio corpo e la propria vita per ricacciare la feccia da dove è risalita.