Negli ultimi due anni, con buona pace di Fukuyama, la Storia si è rimessa in moto. Nel 2016, un ricco ereditiere a capo di un’azienda di costruzioni diventa l’uomo più potente del mondo sconfiggendo una delle più influenti gens della politica del suo paese. Nel 2017, il più antico e saggio degli stati nazione della Vecchia Europa, per una scommessa elettorale di un politico incompetente, fa il più grande harakiri della Storia della politica moderna, rischiando di condannarsi alla marginalità.
E infine, nel 2018, un ex frequentatore di centri sociali, comunitarista e federalista della prima ora, diventa un capo-popolo nazionalista e sovranista e, con la minoranza relativa dei voti alle elezioni, riesce a mettere le mani, almeno simbolicamente, su un governo che ha la pretesa di dirsi votato dal popolo e che è il frutto di un’alleanza totalmente inedita tra Lega e 5 Stelle.
In altre parole: la vittoria di Trump, quella della Brexit e l’affermazione politica di Matteo Salvini e Luigi Di Maio. La sottile linea rossa che unisce questi tre puntini è declinata in alcune parole chiave che sentiamo ormai dire ovunque: populismo, sovranismo, nazionalismo. Tutte parole che chiamano in causa un periodo che pensavamo dimenticato, ma che invece non lo è affatto.
È da qua che parte l’analisi di Massimo Molinari, che prima di essere direttore della Stampa è stato per tre lustri corrispondente negli Stati Uniti, e che proprio ieri ha presentato a Roma la sua ultima fatica, intitolata Perché è successo qui, edita da La nave di Teseo, insieme a due dei protagonisti dell’ultimo quinquennio italiano: l’ex premier democratico Paolo Gentiloni e il nuovo ministro dell’interno Matteo Salvini.
A voler sintetizzare l’analisi di Molinari in una frase, verrebbe quasi da dire che il suo è il ritratto del populismo spiegato da chi non l’ha capito.
Perché è successo qui? Perché è stata proprio l’Italia la prima nazione europea a farsi irretire dalle promesse di Salvini&Co, ovvero dell’avanguardia europea di una specie di paradossale e grottesca “internazionale populista”, un movimento caldeggiato e sostenuto da un tanghero come il nazionalista americano Steve Bannon?
Timore e scarsa conoscenza dell’Islam, una religione ingombrante. Competizione economica dei migranti, che vengono a rubarci il lavoro. Il terrore di perdere l’identità nazionale italica. L’insofferenza e la scarsa identificazione con un’identità sovranazionale come l’Europa, che ci detta regole anziché aprirci nuove opportunità. E, infine, il fascino dell’uomo forte à la Putin. Questi sono, nella visione di Molinari i cinque pilastri che hanno permesso al populismo tricolore di prendere il potere in una nazione che, sempre dal punto di vista di Molinari, sarebbe da sempre “moderata” e difficilmente all’avanguardia.
A voler sintetizzare l’analisi di Molinari in una frase, verrebbe quasi da dire che il suo è il ritratto del populismo spiegato da chi non l’ha capito. O ancora peggio, è l’esatta descrizione minuziosa e limpida di quello sguardo parziale, borghese e lontano dalla realtà che ha determinato il crollo — alle elezioni — dei partiti che si autodefinivano di sinistra, ma che purtroppo, e le prove ci sono e sono evidenti nonostante Molinari non se ne accorga, di sinistra non lo erano affatto. Da anni.
È per via di questo sguardo astigmatico, ma forse anche miope, che il direttore de La Stampa definisce la riforma costituzionale proposta da Renzi come “il messaggio giusto nel momento sbagliato”; o ancora, è per questa visione distorta che, quando parla delle politiche messe in opera da Minniti sulla questione immigrazione, non si accorge che, mentre scrive che quelle politiche “riescono a ridurre drasticamente il numero degli arrivi nel 2018” si sta dimenticando che quelli che non arrivano è perché vengono incarcerati, torturati, violentati e spesso lasciati marcire per anni nelle carceri libiche.
La risposta di Molinari alla domanda che dà il titolo al suo libro non è altro che la prova provata di quello che la nostra classe dirigente ha toppato in tutti questi anni.
Insomma, la risposta di Molinari alla domanda che dà il titolo al suo libro, lungi dall’essere una esauriente spiegazione di come un’idea vecchia come il Novecento — il populismo — sia riuscita ad attecchire in un mondo che l’ha superata a destra e senza frecce, non è altro che la prova provata di quello che la nostra classe dirigente ha toppato in tutti questi anni.
Il populismo in Italia, infatti, non ha attecchito perché siamo poveri, ignoranti e impauriti. O meglio, anche. Ma la verità è che il populismo leghista e pentastellato ha attecchito in Italia così bene e così meglio di altre parti d’Europa perché la classe dirigente e intellettuale di sinistra, invecchiata, appesantita e resa pavida probabilmente dall’età, ha accettato la narrazione populista. E sì sa, quando proponi la brutta copia di qualcosa a qualcuno, alla lunga quel qualcuno si convince che è meglio l’originale.
Alla fine della sua analisi, Molinari è spaventato. «In questo scenario», scrive, «i populisti italiani, grazie al forte sostegno di cui dispongono in patria, potrebbero avere presto un ruolo strategico nel definire i nuovi assetti ed equilibri dell’Unione Europea». È vero. Ed è una paura che dovremmo tutti condividere. Purtroppo però, questo non è più il momento di essere spaventati, non c’è più tempo per le lagne. Ora è il tempo di creare l’alternativa, si seguire l’esempio di altre classi dirigenti più giovani e più coraggiose della nostra che in Spagna, in Austria, in Belgio, persino in Inghilterra, stanno riprendendo in mano le redini delle loro stanche nazioni per portarle un passo più avanti, con coraggio e con creatività.
Siamo di fronte a un baratro, ovvero a una scelta. O ci fermiamo davanti terrorizzati e restiamo a guardare l’abisso finché l’unica scelta sarà buttarsi di sotto. Oppure prendiamo la rincorsa e saltiamo, perché la Storia è già dall’altra parte e i populismi potranno anche vincere le prossime elezioni europee, ma alla lunga sono morti. E come disse pochi mesi fa il sociologo Yascha Mounk in un’intervista rilasciata proprio a Linkiesta: nel breve termine molte democrazie rischieranno di collassare, ma sul lungo periodo, la democrazia prevarrà.