Sinistre autoritarieMilano ipocrita: celebra Banksy, ma sbatte i writer in galera

A Milano si è registrato anche il caso del primo latitante italiano per graffiti, un writer di 29 anni condannato a sei mesi e riparato in Cina. Dovesse tornare in Italia, per lui si aprirebbero le porte di San Vittore

Al Mudec (Museo delle culture) di Milano è cominciata qualche giorno fa una grande mostra dedicata a Banksy.

L’artista inglese, come si sa, è insuperabile nel modo in cui mette in luce le contraddizioni della società contemporanea: e probabilmente la vera particolarità di questa mostra, al di là delle opere esposte, risiede proprio nell’essere, essa stessa, una gigantesca installazione sul concetto di contraddizione.

Diversamente da gran parte degli street artist di casa nostra, perennemente col cappello in mano davanti a Comuni e assessori per ricevere spazi su cui esprimersi e pecunia con cui campare, Banksy è un artista che non ha mai abiurato la dimensione illegale della sua opera e che, anzi, deve il suo successo soprattutto ad essa.

Le opere di Banksy non sono più o meno belle o complesse o ricercate rispetto a quelle di uno a caso delle decine di migliaia di suoi epigoni in giro per il mondo. La differenza sostanziale è che Banksy, grazie alle sue spettacolari performance illegali, si è costruito un’aura di magia che lo ha reso unico, tanto da diventare una star mondiale.

Milano, main sponsor della mostra di Banksy al Mudec, è la città che per prima ha contestato ai writer il reato di “associazione a delinquere”

Basta ricordare che razza di evento globale fu il suo soggiorno newyorkese di qualche anno fa, quando l’artista trascorse due settimane nella Grande Mela imbrattandone i muri, dallo chicchissimo Lower East Side al ghetto di Brownsville (il sindaco Bloomberg non la prese benissimo e istituì una fallimentare caccia all’uomo raccontata nel documentario HBO Banksy does New York).

Oppure al dibattito che scatenò quando si introdusse illegalmente, attraverso i pericolosissimi tunnel sotterranei, in una delle zone più off-limits del pianeta, quella Striscia di Gaza, che riempì di graffiti – ancora una volta illegali – atti a denunciare la situazione vissuta dal popolo palestinese (facile immaginare, anche in questo caso, la reazione delle autorità israeliane).

È quindi con estremo stupore che abbiamo appreso, sul sito del Mudec, come il “main sponsor” dell’evento sia proprio il Comune di Milano, ovvero il Comune che più di ogni altro, in Italia, combatte da anni una guerra senza quartiere contro writer e street artist che, proprio come Banksy, agiscono nell’illegalità.

Milano è la città che per prima ha contestato ai writer il reato di “associazione a delinquere”. La città dove da anni è attiva una task force di poliziotti che scheda e identifica i writer perquisendone le abitazioni alle cinque del mattino, con tanto di operazioni internazionali. Dove lo stesso Comune ha stampato un opuscolo contro i graffiti basato sulla teoria della “finestra rotta”, una delle teorie sociali più reazionarie e superate della Storia. Dove, soprattutto, l’attuale sindaco Beppe Sala si fa vanto di aver “reso difficile la vita ai writers” attraverso 160 processi e 260 imputati in due anni. Tra questi, c’è anche il caso del primo latitante italiano per graffiti, un writer di 29 anni condannato a sei mesi e riparato in Cina. Dovesse tornare in Italia, per lui si aprirebbero le porte di San Vittore.

Non capiamo come il Comune di Milano possa compiere una simile giravolta e sponsorizzare la mostra del writer più fuorilegge del pianeta

Insomma: da quando a Milano governa il centrosinistra, la linea in fatto di writer è chiara, ed è una linea volta ad identificare due tipi di graffiti. Uno legale, buono e tollerato attraverso qualche muro in periferia messo a disposizione. E uno illegale, cattivo, da combattere con la repressione più dura, arrivando al paradosso per il quale, per effetto dell’attuale quadro normativo, prendere a picconate un muro fino a distruggerlo è considerato meno grave che imbrattarlo.

Per questo, non capiamo come il Comune possa compiere una simile giravolta e sponsorizzare la celebrazione del writer più fuorilegge del pianeta.

Se i writer sono pericolosi criminali cui dare la caccia con gli stessi metodi usati per le ‘ndrine della Piana di Gioia Tauro, perché organizzare la mostra del loro Padrino, facendogli addirittura da sponsor? Sarebbe come usare il pugno di ferro con i picciotti e poi farsi vedere in prima fila al matrimonio di Al Capone intenti a baciargli la mano.

L’unica spiegazione possibile, come dicevamo, è che questa mostra sia essa stessa un’opera d’arte: un vero capolavoro di ipocrisia, ad opera di quegli artisti del cerchiobottismo che formano il collettivo noto da anni come “Sinistra Italiana”.

Mettendo dietro le sbarre quegli sfigati dei graffitari si soddisfano nel modo più semplice i palati dell’opinione pubblica manettara; ma nello stesso tempo, con la mostra su Banksy, da una parte si fanno un bel po’ di palanche e dall’altra ci si rifà la verginità davanti a quella variopinta galassia che va dagli ex-sessantottini ai moderni hipsterismi assortiti.

Un pezzo d’autore, che si inserisce in una collezione già molto vasta: basta pensare a quello che accadeva con i migranti, quando all’epoca di Marco Minniti si facevano accordi in Libia con personaggi infimi ma si organizzavano le marcette etnico-chic in patria. O a ciò che accade ogni volta che si parla di sicurezza: grandi dibattiti sulla cultura e sulla partecipazione come ricette antidegrado, ma poi militari in piazza e forze dell’ordine come unica misura concreta offerta ai cittadini.

Non c’è dubbio, con la mostra sull’artista fuorilegge sponsorizzata dal Comune-sceriffo siamo davanti all’atto di nascita di una nuovo movimento artistico: il paraculismo. Neppure Dalì sarebbe stato capace di immaginare un quadro così surreale.

Le newsletter de Linkiesta

X

Un altro formidabile modo di approfondire l’attualità politica, economica, culturale italiana e internazionale.

Iscriviti alle newsletter