Altra prevista, e prevedibile, bocciatura, come oramai si dice, “dell’Europa”, e altra lettera.
Permetteteci tuttavia una notazione che riguarda la prima lettera della Commissione (il che ha un suono da esegesi paolina: dalla “prima lettera ai Romani”). A leggerla con attenzione, e con un minimo di esegesi, il che implica la conoscenza del contesto, si sarebbe potuto ricavarne che – sorpresa, ma poi neanche tanto – la Commissione fosse favorevole ad una sorta di “reddito di cittadinanza”. Magari questo potrebbe servire a scompaginare ancora di più le carte in tavola, ad uscire dalle polemiche preconfezionate, e a guardare alle cose.
Per contestualizzare, occorre ricordare le tante “raccomandazioni” della stessa Commissione fatte all’Italia nel corso di diversi anni (e prima anche dalla Cee) perché fosse istituito, anche in Italia, un reddito minimo garantito come negli altri paesi europei. Nella lettera si legge: “In particolare, sebbene il Consiglio abbia raccomandato all’Italia di ridurre la quota della spesa pubblica destinata alle pensioni di vecchiaia al fine di dare spazio ad altre voci di spesa sociale (…)” ecc.
Questa raccomandazione, l’Italia non l’ha seguita. La bocciatura riguardava esplicitamente la controriforma delle pensioni e il condono. Ma il testo non nominava il cosiddetto “reddito di cittadinanza”. E non solo non lo nominava, ma faceva riferimento a una policy suggerita dal Consiglio: ridurre la spesa per le pensioni, per “altre forme di spesa sociale”. Le altre “voci di spesa sociale” non possono essere che la spesa per il “reddito minimo garantito”. “Sebbene”, si legge, il Consiglio abbia raccomandato (da tempo), l’introduzione di queste voci di spesa sociale, l’Italia va diritta verso un baracco welfare, che ricostruisce quello passato e ci mette pure sopra il “reddito di cittadinanza”, come se fosse possibile e sostenibile.
La bocciatura riguardava esplicitamente la controriforma delle pensioni e il condono. Ma il testo non nominava il cosiddetto “reddito di cittadinanza”. E non solo non lo nominava, ma faceva riferimento a una policy suggerita dal Consiglio: ridurre la spesa per le pensioni, per “altre forme di spesa sociale”
Lo squilibrio della spesa sociale italiana, tutta a favore del lavoratore tradizionale, con un impiego fisso, e delle pensioni (riuscendo comunque ad essere iniqua anche per le pensioni), è nota da tempo, e potrebbe essere sintetizzata con il titolo del libro di Tito Boeri, “Meno pensioni, più welfare”, a cui rimandiamo il lettore che volesse saperne di più. E visto che siamo in tema di lettere dall’Europa, lo stesso invito a riformare, ovvero a introdurre, dei sussidi di disoccupazione europei, si trovava già nella lettera Trichet-Draghi a Berlusconi, punto C.
La riforma del welfare italiano è una cosa seria. Non solo è una cosa seria, ma anche inseguita da decenni. E qualche passo in avanti, con il Rei, era anche stato fatto. Quindi è bene cominciare a cercare di tenere qualche punto fermo, in modo che la polemica non porti a tagliare tutto con l’accetta in modo grossolano.
Non si possono sommare due forme di welfare, una corporativa, gestita peraltro politicamente, e l’altra universalistica. Non è possibile semplicemente la somma di due realtà che insieme non possono stare. Che questo punto sfugga alle parti è chiaro anche dalle obiezioni che vengono rivolte al reddito di cittadinanza, che potrebbero essere le stesse per il “reddito minimo garantito”: il lavoro, si obietta, viene creato dagli investimenti. Certo. Ci mancherebbe. Ma il paralogismo sta nel fatto di non considerare che gli stessi soldi che oggi vanno nel welfare corporativo dovrebbero andare nel nuovo welfare europeo. Non si devono aggiungere soldi da togliere agli “investimenti”, come dice ad esempio Bersani nell’intervista di oggi 20 novembre a Repubblica – Bersani che però considera curiosamente creazione di occupazione l’impego alle province, di cui lamenta la soppressione. Naturalmente ci sono molti altri problemi, i centri per il lavoro, e il lavoro stesso. Ma è opportuno sapere che i paesi europei non spendono più di noi per il welfare, spendono semplicemente meglio.